criticità della nozione di figura nell’ecologia del percorso generativo.
di Edoardo Lucatti
Avvertenza. L’indicazione bibliografica non si riferisce all’edizione originale ma solo al volume da cui sono “fisicamente” tratte le diverse citazioni. Vale la seguente legenda:
Sem/Erm: Ricoeur P. e Greimas A. J., Tra semiotica ed ermeneutica, a cura di Marsciani F., Meltemi 2000
Morfog: Petitot J., Morfogenesi del senso. Per uno schematismo della struttura, Bompiani 1990
DS2: Greimas A. J., Del senso 2, Bompiani 1994
Diz: Greimas A. J. e Courtes J., Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Mondatori 2007
CRP: Kant I., Critica della ragion pura, Laterza 2005
Non conosco la totalità dei rispetti sotto cui si può parlare – e di fatto si parla – di figura, di figuratività, di figurativo. A braccia, direi che si può parlare del figurativo in rapporto al plastico. In un senso più ampio, si può parlare del figurativo come variabile del processo di figurazione – la cui costante sarebbe il figurale (1). In un senso più ampio ancora, si può parlare di figure in rapporto a quel discorso di cui le figure stesse costituirebbero – in qualche modo – gli atomi. Si parla però un po’ meno – e varrà forse la pena di capire perché – delle figure in rapporto al percorso generativo del senso, ossia in rapporto a quel dispositivo in cui tutte le precedenti questioni possono integrarsi e riconoscersi come afferenti ad una stessa teoria semiotica.
Ora, non è questa la sede per una Storia della nozione semiotica di figura, ancorché sommaria. L’unico vero difetto del metalinguaggio semiotico è quello d’essere arrivato “troppo tardi”: ancora oggi, infatti, ci troviamo a maneggiare alcune “paroline” che, da un autore all’altro e da un programma di ricerca all’altro, non sempre hanno significato la stessa cosa. “Simbolo”, ad esempio, è una di queste paroline. “Figura” – senza dubbio – è un’altra di queste “paroline”. Le figure di Hjelmslev – fonologiche o semantiche che siano – sono entità subsegniche che hanno poco o nulla da spartire con la nozione di figura che troviamo in Greimas. In questo senso, rapportare la discussione al solo percorso generativo rappresenta, fra le altre cose, un modo per toglierci d’impiccio e dire subito che ci riferiremo alla figura nella misura esclusiva in cui essa partecipi dell’articolazione del senso dato cui il percorso stesso presiede. Al di fuori del percorso generativo, ci sono numerose figure d’altro statuto (ad esempio le figure della Gestalt) che per partito preso non esamineremo.
Il problema è che questa restrizione di campo, a un solo campo, non è affatto sufficiente a restituirci una sola figura. Conviene, dunque, anticipare subito la mia tesi, di modo che possiate cominciare a inquadrarla in vista della discussione che spero ne scaturirà. Vi sono (almeno) due modi antitetici d’intendere il percorso generativo e la nozione di figura cambia di segno a seconda che si accolga l’uno o l’altro modo. Per comodità, riferirò questi modi agli autori che più e meglio di altri ne hanno espresso le implicazioni nei confronti dell’epistemologia semiotica: da un lato Paul Ricoeur, cui ascriviamo la concezione del percorso generativo in quanto “modello”; dall’altro lato Jean Petitot, cui ascriviamo la concezione del percorso generativo in quanto “schema”.
Prima di addentrarci nella differenza tra modello e schema, è possibile effettuare un rilievo critico generale, che concerne il dettato greimassiano. Stufo dell’inerzia e dell’entropia in cui galleggiava la riflessione filosofica sui segni, Greimas ha prodotto una teoria semiotica a vocazione eminentemente e dichiaratamente operativa. Il percorso generativo, frutto principale di questa teoria, riflette le attese che hanno condotto ad esso: assolutamente perfetto dal punto di vista ingegneristico, esso può risultare assai più opaco dal punto di vista concettuale. In altre parole: esistono molti meno dubbi circa il funzionamento del percorso generativo di quanti non ve ne siano sul significato del percorso generativo. Che operazione stiamo compiendo quando usiamo il percorso generativo? Sono convinto che questa sarebbe un’ottima domanda da rivolgere agli studenti durante gli esami. Cosa te ne fai tu del percorso generativo? A questa domanda, infatti, Ricoeur e Petitot forniscono risposte profondamente diverse e, ciò che più conta, per molti aspetti contraddittorie.
Questo stesso fatto, dato il carattere quantomeno avveduto di entrambi gli autori, è indice – a mio parere – di una lacuna storica del generativismo semiotico, un paradigma che sembra scontare il curioso paradosso di cavarsela molto bene sul campo senza saper dire veramente in cosa se la stia cavando tanto bene. Il punto è abbastanza serio, perché è piuttosto dura farci comprendere fuori quando non ci intendiamo dentro. Non credo, insomma, che l’ostracismo culturale patito dalla semiotica si possa spiegare rinviando alla sua costitutiva inattualità. Io penso che molti nostri possibili interlocutori rimangano possibili perché – semplicemente – non capiscono cosa stiamo facendo. Leggono le nostre analisi, ci trovano qualcosa di interessante, talora anche qualcosa di molto acuto, e però è raro che ne colgano le ragioni profonde. La nostra è un’epistemologia sepolta, che non riesce a farsi vedere da fuori. Non è un caso, a mio avviso, che manchi fra gli insegnamenti un corso specifico di epistemologia semiotica. Nemmeno il correttore automatico di word fa mostra d’averci registrato e segna in rosso il 70% del nostro metalinguaggio. “Semiologo”, per Windows, è un errore.
Ora, il problema, evidentemente, non è tanto che Bill Gates misconosca la nostra importanza (anche “Bill Gates” è segnato in rosso, ma per altri motivi). Il guaio è che i nostri vuoti epistemologici potrebbero essere colmati da altri, e a modo loro. Con Ricoeur, di fatto, è già accaduto. Non trovando un episteme semiotica forte, egli ha annesso la semiotica all’episteme ermeneutica, e lo ha fatto asserendo sostanzialmente tre cose:
1)l’ermeneutica è definita da una dialettica fra spiegare (istanza razionalista) e comprendere (istanza idealista);
2)le ermeneutiche si differenziano in base al polo dominante di questa dialettica;
3)mentre l’ermeneutica di Ricoeur si fonda sul primato della comprensione (secondo la massima “spiegare per meglio comprendere”), l’ermeneutica di Greimas si fonderebbe sul primato della spiegazione (segnatamente della spiegazione tassonomica e assiologica), rispetto alla quale la comprensione sarebbe un effetto di superficie derivato.
L’operazione di Ricoeur è quella del critico che vuole giocare in casa: prima dice che la semiotica è un’ermeneutica e poi dice che non è una buona ermeneutica. Ebbene, anche la geometria non è una buona biologia, ma il motivo è semplice: la geometria non è una biologia, quindi non può essere una buona biologia. La semiotica non è un’ermeneutica, e quindi non sarà mai una buona ermeneutica.
In quanto ermeneutica, la semiotica – secondo Ricoeur – è uno dei modi per indagare il senso dell’essere. Tuttavia – e questa è la critica fondamentale di Ricoeur – essa riuscirebbe a indagare solo una piccola parte del senso dell’essere, vale a dire quella parte che risulta compatibile con le strutture profonde del percorso generativo. La semiotica, in altre parole, sarebbe in grado di rendere conto di quei soli racconti e di quelle sole narrazioni sociali in cui si assista al ripristino di un quadro di valori precedentemente minacciato e/o violato. Leggendo Ricoeur, si ha insomma l’impressione che il quadrato semiotico esprima un’ipotesi sul funzionamento del mondo che ha solo un numero limitato di conferme empiriche e che, per lo più, è costantemente invalidata. Cito da Ricoeur:
Greimas stesso, in Semantica strutturale, ammetteva che la funzione più generale del racconto era quella di ristabilire un ordine di valori minacciati. Ora, sappiamo bene, grazie allo schematismo degli intrecci prodotti dalle culture delle quali siamo eredi, che una tale restaurazione dell’equilibrio iniziale caratterizza soltanto una certa categoria di racconti, e senza dubbio anche di favole. Quanto diverse sono le maniere con cui l’intreccio articola “crisi” e “risoluzione”! E quanto diverse le maniere con cui l’eroe (o l’antieroe) si vede modificato dal corso dell’intreccio! Non è lecito dubitare che tutti i racconti possano essere proiettati su questa matrice topologica, la quale comporta due programmi, un rapporto polemico e un transfert di valori? (Sem/Erm, p. 44)
Ed ecco che arriviamo alle figure. Ricoeur contesta che le figure siano il mero rivestimento delle strutture profonde perché così come tanta parte del senso dell’essere non è spiegata dal quadrato semiotico, tanta parte delle figure che il mondo – e in particolare il mondo della letteratura – ci presenta non possono essere considerate il rivestimento di valori (e soprattutto di sintassi elementari) che esse non esprimono. Chiamato dalla sua supposta vocazione ermeneutica a rendere conto del senso dell’essere, il quadrato semiotico si rivelerebbe un pessimo modello descrittivo (un “letto di Procuste”, lo definirà non a caso Ricoeur) perché tralascia di rendere conto di numerose figurazioni e di numerosi intrecci, cercando semmai di ridurli al proprio schema.
Dopodichè Ricoeur fa un passo ulteriore, e va in cerca di un’intelligenza che sia diversa da quella semiotica e, a un tempo, fondativa rispetto ad essa, capace cioè di farsi carico di tutti i racconti e di tutte le figure, compresi i racconti e le figure che calzano alla semiotica stessa e alla sua specifica razionalità. Egli rinvia così alla nozione aristotelica di phronesis. La phronesis, di cui Aristotele parla diffusamente nel VI libro dell’Etica Nicomachea, è una sorta di intelligenza pratica o narrativa, radicata nel nostro essere irrinunciabilmente inscritti nel tempo, e guiderebbe la creazione e la comprensione dei racconti, della loro temporalità e della loro logica narrativa. Ricoeur fa così dipendere la “razionalità narratologica” della semiotica – come la chiama egli stesso – da questa “intelligenza narrativa” o “phronesis” e si propone di smascherare il tentativo retorico con il quale la semiotica vorrebbe far derivare la seconda, cioè la phronesis, dalla prima, cioè dalla razionalità narratologica che presiede, per intenderci, al funzionamento del quadrato semiotico. Cito ancora da Ricoeur:
… un’intelligenza narrativa continua a servire da guida tacita per dare senso a nozioni quali contratto, rottura di contratto e ristabilimento del contratto, nel momento stesso in cui il contratto viene assimilato a una congiunzione tra proibizione e violazione, e il suo ristabilirsi viene assimilato a una nuova congiunzione. Nello stesso modo, nel passaggio dalle idee di mancanza e di liquidazione, che comprendiamo, alle numerose disgiunzioni e congiunzioni che ne segnano il divenire, è ancora l’intelligenza narrativa che serve da guida tacita alla razionalità narratologica. E allo stesso modo è la comprensione dello sviluppo temporale del racconto, al di sotto delle figure della prova, della ricerca, della lotta, con tutte le sfumature assiologiche apportate dalle idee di violazione e di ristabilimento, che guida sotto sotto la logica delle trasformazioni che la razionalità narratologica sovrappone all’intelligenza narrativa (Sem/Erm, pp. 74-75).
Sarebbe quindi un’intelligenza pratica, mondana, a fondare la possibilità di una sintassi elementare, a decidere – dunque – di come la matrice topologica del quadrato possa essere dinamizzata per divenire così il luogo teorico di una circolazione del valore. Detto diversamente: se ci è venuto in mente che da un punto all’altro del quadrato si potesse perfino transitare è perché nella nostra esperienza di tutti i giorni siamo soliti non soltanto distinguere il bene dal male, ma anche passare da condizioni “buone” a condizioni “meno buone”, corrompendo o meglio vivendo le nostre categorie nel tempo. Ma questa è storia, teoria o forse addirittura filosofia della conoscenza, e non c’entra nulla con lo statuto semiotico del percorso generativo. In altre parole, è chiaro, quasi lapalissiano direi, che l’ipotesi scenica espressa dal sistema degli attanti, così come l’idea stessa di trasformazione, sono prelevate, come dice Ricoeur, dalla “frequentazione dei racconti e dei loro intrecci” (Sem/Erm, p. 75), ma tutto ciò rileva al più della loro provenienza empirica, della loro tracciabilità storica (per altro piuttosto ovvia) e non rileva in alcun modo del loro statuto teorico, di cui qui si discute.
Da questo punto di vista mi sembra che il punto meno onesto (o più grossolano) dell’argomentazione di Ricoeur coincida con quei passaggi in cui il confine tra manifestazione e immanenza viene spostato, falsato e, talora, decisamente cancellato. Scrive ad esempio Ricoeur:
… desidero sottolineare (…) come proprio il livello figurativo apporti la dimensione dinamica alla base delle regole di trasformazione, che sono retro proiettate dalle strutture di superficie alle strutture profonde” (Sem/Erm, p. 88)
Se sono le figure ad apportare la dimensione dinamica alla base delle regole di trasformazione, significa che tali figure costituiscono il dominio di riferimento della phronesis, cioè di quell’intelligenza pratica, mondana, che ci fornisce le idee stesse di temporalità e trasformazione. La phronesis è, dunque, (1) intelligenza pratica, mondana, narrativa e, a un tempo, (2) intelligenza figurativa. Figurazione e intreccio, infatti, sono quasi sinonimi per Ricoeur (la figurazione è un intreccio e l’intreccio è di figure), con evidente imbarazzo per una semiotica che invece è abituata a pensarli su piani sfasati, strutture discorsive e strutture semio-narrative. Ma questo appaiamento ha luogo perché per Ricoeur le figure sono le grezze figure reperibili nei racconti, figure date e immediate, nonché, effettivamente, in se stesse intrecciate e che – come tali – si offrono a pratiche descrittive diverse: quella del lettore ingenuo, quella del critico letterario, quella dello storico della letteratura e, perché no, quella del semiologo.
Ma questo è il piano di manifestazione e non è possibile salvaguardare l’ecologia del percorso generativo se installiamo il livello figurativo nel piano di manifestazione. Se lo facessimo – limitando l’immanenza del semiotico alla sola semionarratività – dovremmo poi concordare con Ricoeur quando dice che il quadrato semiotico e, a pioggia, la sintassi attanziale sono modelli descrittivi insufficienti, incapaci di rendere conto del senso dell’essere. Allora la questione è: dove sta la figura? Dentro il piano di immanenza o fuori? Se stesse fuori, come di fatto propone Ricoeur, dovremmo fare i conti – almeno – con due ordini di conseguenze.
1)il primato del linguistico sul semiotico
2)la deriva ontologica del semiotico
È lo stesso Ricoeur a trarre l’una e l’altra conseguenza e a farne i cardini della sua revisione semiotica. Da un lato, dice Ricoeur,
L’ordine linguistico (è) allo stesso tempo un sistema semiotico tra gli altri e il caso paradigmatico sul quale si lasciano discernere i tratti generali del semiotico in generale. […] Non contesto il diritto di leggere il semiotico sopra il linguistico. Contesto che lo si articoli prima del linguistico. In questo senso il semiotico e il linguistico si precedono reciprocamente: il primo in virtù della sua generalità, il secondo in virtù della sua esemplarità. (Sem/Erm, p. 24)
Dall’altro lato, siccome il linguistico è articolato e compreso sulla base della phronesis, intelligenza pratica che cuce un rapporto con il testo a partire dal nostro essere al mondo e dal nostro essere nel tempo, l’indagine semiotica dovrebbe smettere di porre il mondo del testo e dovrebbe cominciare a porre il testo nel mondo – facendosi così carico della sua inserzione ontologica.
Quanto al punto 1, va detto che Ricoeur distingue un “ordine dell’esposizione” – in cui vige il primato del semiotico (e del profondo) – e un “ordine della scoperta” – in cui vige il primato del linguistico (e del superficiale). È anche vero, però, che, nella misura in cui le figure si scoprono altre rispetto all’immanenza del semiotico e afferenti piuttosto alla manifestazione, l’ordine della scoperta in cui esse vengono reperite finisce per fagocitare tutto e diventa in buona sostanza l’ordine generale dell’indagine sul senso – sul senso, ribadiamolo, in quanto senso dell’essere. Travisato per un percorso genetico della manifestante (2), il percorso generativo smarrisce la sua omologia interna: il semio-narrativo fa blocco a sé e diventa un modello plastico dotato di forte coerenza interna; il discorsivo evade dal modello e ne diviene l’oggetto. In questo modo, abbiamo a che fare con un modello semio-narrativo del discorso, ma di un discorso autoriale, letterario, depositato nell’essere, le cui figure sono oggetti di una percezione che non può non venire condotta nell’essere e, dunque, nel tempo.
Ricoeur, e veniamo così al punto 2, ha sempre rimproverato alla semiotica d’aver rifuggito l’extra linguistico, “come se – cito – il linguaggio non fosse, da sempre, gettato fuori da sé dalla sua veemenza ontologica!”. In questa prospettiva critica, figlia dell’annessione ermeneutica, l’acronia della matrice topologica non può che rivelare tutta la sua insufficienza: Ricoeur parla, precisamente, di un eccesso del processo sulla struttura, di un’eccedenza del figurativo che il modello – impegnato a confermare se stesso – non riuscirebbe a descrivere.
A un percorso generativo inteso come modello descrittivo corrisponde quindi una nozione di figura esogena – esterna al modello stesso e offerta, in prima istanza, alle logiche della percezione. Il senso dell’essere chiede – anzitutto – di essere percepito nelle sue inserzioni mondane. Ma davvero il percorso generativo è un modello? Leggiamo assieme questo passo in cui Petitot esprime le implicazioni epistemologiche della sua rilettura catastrofista del generativismo greimassiano:
La difficoltà veniva dal fatto che avevamo affrontato la questione in termini di modellizzazione, come se le strutture (categorizzazione paradigmatiche e morfologie attanziali) fossero dei fenomeni predefiniti nel loro senso d’oggetto. Ora, ci siamo resi conto molto presto che non era così: [lo schematismo] catastrofista definiva il contenuto oggettivo dei fenomeni che [esso] modellizzava, decideva del loro essere, esercitava nei loro confronti una funzione di determinazione oggettiva, e a questo titolo concerneva la costituzione di una nuova appercezione. (Morfog, p. 17, parentesi quadre e neretto miei)
Torneremo poi sulla nozione di appercezione. Il messaggio di Petitot, comunque, è già chiaro: il percorso generativo non descrive proprio nulla, tanto meno si pone come modello descrittivo del senso dell’essere. La funzione del percorso generativo, come quella di ogni dispositivo autenticamente strutturale, è quella di determinare l’oggettività strutturale dei fenomeni di senso. In altre parole, siccome il senso è qualcosa di immateriale – non predefinito, pertanto, nel suo aspetto di oggetto – e siccome, d’altra parte, la semiotica deve condurre un’indagine sul senso la cui vocazione scientifica non può fare astrazione da un qualche rapporto all’oggetto, è necessario che questa oggettività del senso – da principio indisponibile – venga determinata appositamente. L’orizzonte è squisitamente kantiano: immaginazione produttiva e decisione critica. Il problema semiotico, con Petitot (e a mio avviso anche con il migliore Greimas), non è più il senso dell’essere ma diventa l’essere del senso. Alla domanda di Ricoeur (che senso ha l’essere?) – domanda tanto vertiginosa da essere, paradossalmente, a costo zero, Petitot sostituisce un’altra domanda (Che essere ha il senso?), la quale – del resto – è assolutamente irrinunciabile per una semiotica che aspiri a sapere di cosa si stia occupando tanto bene. Scrive Petitot:
non si può misconoscere questo principio trascendentale di decisione sull’essere e sul reale, secondo il quale solo delle categorie schematizzate permettono legittimamente di riflettere in immanenza delle condizioni di possibilità. La semiotica, se non vuole rassegnarsi a essere soltanto descrittiva, non può evitare il problema critico. Quest’ultimo, se (…) messo in rapporto con una matematica che eserciti una funzione fondata di determinazione oggettiva, è la chiave che permette la costituzione della sua ontologia regionale. (Morfog, pp. 225-226)
Ma come si determina l’essere del senso? Se ci asteniamo dal senso qualunque di un fatto, come possiamo riconoscere un qualunque fatto di senso? La risposta – come tutte le risposte autenticamente semiotiche – è nella forma. E ce la fornisce Greimas:
(La) relazione costitutiva di un enunciato canonico di stato (…) fornisce il quadro formale e i criteri di riconoscimento dei fatti semiotici pertinenti per qualsiasi analisi. (DS2, pp. 24-25, parentesi e corsivo nostri).
La forma – dunque – è S→O. Questo è l’essere del senso. Ma cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire forse che tutto quello che c’è la fuori significa S→O? Ovviamente no. Vuol dire solo che qualunque cosa ci sia là fuori, è di questo che ci serviremo per articolarla. S→O è uno schema e ci serve per determinare – sub specie formale – l’oggettività strutturale dei fenomeni presi in esame. S→O è il fenomeno che diventa oggetto, la materia che diventa forma, l’esperibile che diventa fungibile. L’ontologia regionale della semiotica è un’ontologia popolata di rapporti fra istanze soggetto e istanze oggetto. Infatti, cito dal dizionario, “l’esistenza semiotica di una grandezza qualunque è determinata dalla relazione transitiva che la lega, in quanto oggetto di sapere, al soggetto cognitivo”.
Come anticipa il dizionario stesso, la definizione di esistenza semiotica è una definizione operativa. Essa, infatti, porta su funzioni e non su enti. L’operatività, per la semiotica, è tutto. È l’operatività, ad esempio, che spiega perché il fatto semiotico pertinente sia S→O. La semiotica, a un certo livello, è definibile come una teoria del valore. La nozione di valore viene alla semiotica dalla linguistica, la quale ne aveva dato una definizione puramente negativa, assumendolo come un campo di esclusione rispetto a ciò che esso non è. Ora, Greimas dice che affinché la nozione di valore sia resa operativa, affinché insomma ci si possa lavorare, è necessario che questo valore differenziale sia “fissato in un luogo sintattico chiamato oggetto” e offerto, per ciò stesso, ad un soggetto. Da questo punto di vista, il percorso generativo appare a mio avviso caratterizzato dal carattere necessario della conversione: solo il passaggio dalla matrice topologica alla sintassi attanziale rende operativo il valore che quella matrice, pure, definisce. Per questo motivo, ho pensato che il processo di decisione critica sull’essere del senso, quello che porta all’enucleazione di questa relazione (S→O), potesse essere scandito da un trittico di restrizioni successive.
La prima è la restrizione morfologica. Entra nell’essere del senso solo ciò che può essere assunto in quanto morfologia. “La morfologia è un sistema di discontinuità qualitative su uno spazio substrato” (Morfog, p. 92). Ora, la discontinuità è un’invariante della percezione (senza discontinuità non si percepisce nulla); per questo motivo è possibile non solo e non tanto rilevarne lo spessore empirico ma anche e soprattutto riconoscerle un profilo trascendentale. La discontinuità infatti – come scrive Petitot –
condiziona l’apparire dei fenomeni e li definisce quindi in quanto tali. Principio dell’apparire morfologico, la discontinuità è inerente all’oggettività dell’oggetto. […] Concependola come soggettiva in senso trascendentale, noi ripetiamo il gesto kantiano che consiste nel collocare in posizione di intuizione pura delle invarianti della percezione. (Morfog, p. 93)
Provvista di uno statuto sganciato da ogni vincolo esperienziale, la morfologia vale anche per regioni non fisiche e quindi designa l’esistente con cui la struttura sigilla la propria oggettività in un regime di appercezione. La restrizione morfologica è quella che definisce il valore come entità di dominio topologico. Come tale, essa è alla base dell’articolazione sincronica del quadrato, vale a dire della sua semantica elementare.
La seconda è la restrizione fenomenologica. Entra nell’essere del senso solo quel valore (o fatto morfologico) che vale. La restrizione fenomenologica è quella che definisce il valore come entità di dominio assiologico. Come tale, essa è alla base dell’articolazione diacronica del quadrato, vale a dire della sua sintassi elementare.
La terza, e decisiva, è la restrizione antropomorfica. Entra nell’essere del senso solo quel valore che vale per qualcuno. La restrizione antropomorfica è quella che definisce il valore come entità di dominio attanziale. Come tale, essa è alla base dell’enunciato di stato, la cui relazione costitutiva – dice Greimas – definisce il “fatto semiotico pertinente per qualsiasi analisi”, “la nozione stessa di esistenza semiotica” e, quindi, “l’essere del senso”.
Questo processo di decisione critica sull’essere del senso – operazione che si compie ogni qual volta si utilizzi il percorso generativo – si basa sull’equivalenza fra i livelli. In altre parole, la posta che passa da un livello all’altro è sempre la stessa, anche se ciascun livello l’articola secondo la razionalità che gli è propria. Le figure, e, più in generale, il livello discorsivo, non fanno eccezione. Le figure, in altra parole, non sono pezzi di mondo a cui la semiotica assegna ex post un valore, ma sono, in se stesse, fatti di valore e non hanno esistenza semiotica dissociata o dissociabile dai valori ad esse sottese. Il dizionario è molto preciso al riguardo:
le figure non sono separabili dai valori, e la tipologia delle figure sarà omotetica a quella dei valori, quando questa sarà sistematizzata. (Diz, voce /figura/)
Ma allora, se questo è vero, non si da nessun eccesso del processo sulla struttura (come sostiene Ricoeur), nessuna incommensurabilità residuale fra logico e antropomorfico. E questo perché, come scrive Marsciani commentando lo stesso Ricoeur,
le “forme di articolazione” (…) pertengono allo stesso ordine di realtà – (…) partecipano della stessa natura formale – dei postulati ipotetici di partenza. In questo senso non c’è pretesa semiotica di ri-generare i testi, di ri-produrli, bensì soltanto la volontà di simularne le condizioni di produzione semiotica. (Sem/Erm, p. 14)
Le figure non sono altre rispetto al piano di immanenza, non afferiscono alla manifestante. Esse fanno parte integrante del percorso generativo e, come tali, di una ricostruzione immanente delle condizioni di possibilità del darsi del senso. È a questo titolo, e solo a questo titolo, che diventa possibile tradurre fra loro figure letterarie, pittoriche, musicali, cinematografiche, giornalistiche, politiche, gergali, architettoniche, pubblicitarie, religiose, mitiche, scientifiche, televisive, ecc. Per la semiotica, il luogo in cui questi diversi campi sono articolati in figure non è quello della loro manifestazione, bensì quello del piano d’immanenza della nostra disciplina, nel quale le figure sono enucleate congiunturalmente a un quadro di valori che ne doppi l’articolazione in profondità, traducendolo omograficamente nelle strutture semio-narrative superficiali e profonde.
A un percorso generativo inteso, kantianamente, come schema corrisponde quindi una nozione di figura endogena – interna allo schema stesso e offerta, in prima istanza, alle logiche dell’ appercezione trascendentale.
Ma cos’è questa appercezione? Il termine, introdotto da Leibniz e poi perfezionato da Kant, indica una sorta di percezione autoconsapevole, che non rinvia ad alcun riscontro empirico. In una filosofia morale pura, ad esempio, il rapporto fra giustizia e ingiustizia è appercepito. La discontinuità di cui si è parlato, ancora, concerne un processo appercettivo: principio dell’apparire morfologico e dunque primo vagito del valore, la discontinuità vale indifferentemente per regioni fisiche e non fisiche e, come tale, costituisce un’invariante della percezione che proprio per questo può essere assunta come intuizione pura, autoconsapevole. In un senso più lasco e meno rigoroso del termine, si appercepisce tutte le volte che si costruisce uno spazio ideale all’interno del quale poter organizzare e distinguere gli oggetti ideali propri di quello spazio. L’appercezione, insomma, è la costruzione di una percezione soltanto possibile. Il quadrato semiotico non è direttamente percepibile ma è possibile costruire uno spazio ideale all’interno del quale fare in modo che la percezione del quadrato abbia realmente luogo. Il quadrato semiotico, la sintassi attanziale e la sintassi figurativa sono tutti oggetti di appercezione perché sono tutti afferenti a un piano di immanenza empiricamente indisponibile, all’interno del quale – tuttavia – essi sono dotati di una propria oggettività, ideale e reale a un tempo – come scriveva Deleuze. Non si ha appercezione se non di qualcosa di ideale cui si conferisce una qualche realtà. È proprio sotto questo rispetto che l’essere del senso chiede – anzitutto – di essere appercepito.
La rinuncia al trascendentale, dice Petitot, è una rovina. La semiotica è una disciplina che deve astenersi dal descrivere il senso dell’essere e che, piuttosto, deve decidere l’essere del senso, immaginandone un’articolazione adeguata a questo suo essere. Le figure devono entrare a pieno titolo in questa decisione critica e non già stare al cospetto di un modello descrittivo condannato a esserne un calco rozzo, semplicistico e riduttivo. Com’è chiaro, dunque, la mia preferenza va senz’altro alla concezione del percorso generativo in quanto schema. Ritengo che solo attraverso uno schematismo della struttura si possa corroborare davvero la vocazione scientifica della nostra disciplina. Se ne va dell’essere del senso, infatti, il nostro metalinguaggio non funziona più come una griglia arbitraria e nominalista da appiccicare a un mondo che le sfugge ma diventa la designazione motivata e realista di un’ontologia regionale del senso che fornisce ai nostri discorsi sul senso il parametro indispensabile dell’oggettività.
In tutto questo la nozione di figura non si sottrae a un’ultima perplessità. Se l’ipotesi modellizzante implica l’uscita delle figure dal modello – il modello stesso non essendo altro che modello immanente di figure manifeste, l’ipotesi trascendentalista – per quanto si basi sull’omotetia e sulla comune natura formale di valori e figure – termina la determinazione dell’essere del senso al livello dell’enunciato di stato, cioè a monte del figurativo stesso. Da un lato, il modello (ipotesi di Ricoeur) espellerebbe da sé le figure perché le riconosce afferenti all’ontologia, all’Essere, di cui in quanto modello descrive il senso. Dall’altro lato, anche lo schema (ipotesi di Petitot) tenderebbe a tener fuori le figure: esse, infatti, risultano inessenziali alla determinazione dell’ontologia regionale del senso, che procede dalla semantica elementare (restrizione morfologica), passa per la sintassi elementare (restrizione fenomenologica) e si conclude con la sintassi attanziale (restrizione antropomorfica). E la cosa fa davvero problema, dato che – come abbiamo già letto dal dizionario – “le figure non sono separabili dai valori e la tipologia delle figure sarà omotetica a quella dei valori, quando questa sarà sistematizzata.” Nell’invitarvi a discutere su questo e altri aspetti della questione che vi avessero interessato, mi piacerebbe chiudere con la comune lettura di un altro passo importante:
Vi sono soltanto due casi possibili, nei quali la rappresentazione sintetica e i suoi oggetti possono incontrarsi e riferirsi l’uno all’altro in una maniera necessaria, e quasi convenire: o che l’oggetto renda possibile la rappresentazione, o che questa l’oggetto. Se si ha il primo caso, il rapporto è solamente empirico, e la rappresentazione non è mai possibile a priori (nda, è il caso, diremmo noi, dell’ermeneutica). Ma se si ha il secondo (nda, è il caso, diremmo noi, della semiotica), dato che la rappresentazione in se stessa – giacché qui non si parla della sua causalità mediante il volere – non produce l’oggetto suo quanto all’esistenza, essa rappresentazione è tuttavia determinante a priori rispetto all’oggetto se solamente per mezzo di essa è possibile conoscere alcunché come oggetto. (CRP, pp. 105-106, parentesi e corsivo nostri)
a) PG come Modello
b) PG come Schema
a) senso dell’essere
b) essere del senso
a) ipotesi nominalista
b) ipotesi realista
a) percezione
b) appercezione
a) descrizione
b) prescrizione (o decisione critica)
a) immaginazione riproduttiva
b) immaginazione produttiva
a) figura esterna al modello
b) figura interna allo schema
NOTE:
(1) “se la significazione cessa con la figura […] il confronto non ha luogo tra le negatività del non-figurativo e la positività del figurativo, ma tra due modi di figurazione. Dal punto di vista epistemologico, questi due modi partecipano di una correlazione che iscrive il figurale come costante e il figurativo come variabile. (Diz, voce /figura/)
(2) … nel quale, come dice Ricoeur, “il tempo diviene umano nella misura in cui è espresso in moduli narrativi e il racconto raggiunge la sua piena significazione quando si rivela condizione dell’esistenza temporale”.