Francesco Marsciani – Università di Bologna
Il corpo
0. Introduzione (ovvero: parrebbe che la materia diventi corpo quando si piega su se stessa)
E’ diventato difficile parlare del corpo, oggi che esso sembra occupare il centro della scena, il centro assoluto di tutte le scene possibili, mediatiche, accademiche, istituzionali o più genericamente diffuse nelle indefinite forme delle interazioni quotidiane.
Il corpo è diventato il grande attore che si muove sul palco del mondo, preso in un vortice di esaltazione che si alimenta di tutti i discorsi in circolazione, dei discorsi pubblicitari, di quelli della cura, di quelli del desiderio e della violenza, di quelli del diritto e di quelli delle rivendicazioni, di quelli della conoscenza e di quelli dell’ignoranza, di quelli del consumo come di quelli della preghiera.
Parlare del corpo rischia allora di non valere altro che per il dire, il ridire e il dire ancora, questa stessa presenza di un nuovo protagonista, di un personaggio speciale che si è riconquistato, nel corso dei decenni appena trascorsi, il diritto di farsi vedere, di farsi guardare e ascoltare, il diritto di imporre istanze, orientamenti, o anche soltanto di giustificare a suo modo istanze e orientamenti di cui si presta a fare da supporto ma che traggono altrove le loro motivazioni, oppure non altrove, poiché siamo al punto (finalmente o sciaguratamente…) che un altrove del corpo non si dà, che il corpo è tutto, il mondo è corpo e il soggetto è corpo e il linguaggio, forse addirittura il linguaggio, può essere compreso come corpo in atto, come corpo vivo.
E tuttavia la nostra memoria ci aiuta a ritrovare le ragioni di questa situazione, situazione che è al contempo la situazione attuale, in cui il corpo è precisamente al centro dell’attualità, e inevitabilmente inattuale, come è inattuale qualunque discorso sul centro della semiosfera, come è ripetitivo un discorso su ciò che continuamente si offre allo sguardo e come è tautologico il discorso su ciò che si propone come il tutto, come ciò da cui nulla può prescindere. E’ una storia relativamente recente in realtà, è la storia del secolo scorso, né più né meno, come se effettivamente il secolo scorso non potesse essere ricordato per molto altro che per i suoi corpi, tanti e diversi, ma comunque corpi riattualizzati dalle mille scene su cui sono ricomparsi, set fotografici e cinematografici, gulag e lager, bikini e minigonne e pornoshop, psicologie del rimosso e antropologie del sensibile, esplosioni di corpi smembrati tra bombe e protesi tecnologiche e implosioni di corpi anoressici, ascesi ed isterie, passi che lasciano impronte sulla luna e codici genetici rivelati. Un secolo dedito al riscatto di un corpo denegato, quello appena trascorso, secolo di grandi guerre e di grandi respiri, di massacri mai visti e di fratellanze universali, e forse, soprattutto o sotto sotto, secolo in cui ha serpeggiato un corpo, quello femminile, per trovare a sua volta una scena e una voce, l’altra metà del corpo, quella metà che sapeva di esserlo.
Oggi stiamo tutti attorno al corpo, tutti accanto a questo corpo che i riflettori illuminano e che forse così, abbagliato da tutta questa visibilità, appare meno imponente, meno sovrastante e capace di onnipresenza di quanto qualcuno aveva promesso; a stargli attorno sembra di stare attorno ad una creatura meno forte e inossidabile di quanto potessimo sperare, più fragile e bisognosa di cure, più a rischio di obsolescenza e di trapasso, qualcosa che per essere mantenuto al massimo grado di vitalità ha dovuto troppe volte essere trasferito e tradotto sulla carta patinata, come in una sorta di rappresentazione ininterrotta delle sue qualità peculiari, messa in scena costantemente reiterata dei suoi pregi, della sua carica, della sua energia vivificante, della sua potenza. Ed effettivamente siamo al punto che a parlar di corpo ci si può chiedere, al fondo, che cosa esso sia, se questo mio pulsare di ossa e muscoli, se quella rete di connessioni sociali e valoriali, attrazioni e repulsioni reciproche, che rende conto dello stare insieme, se quell’altra rete di connessioni neuronali costitutiva della mente incorporata o ancora se la somma indefinita di tutte le rappresentazioni e i punti di vista sul mondo vissuto. Corpo è diventata una parola vagamente generica ed è questa una delle ragioni, non secondaria, della difficoltà con cui si scontra, nell’attualità inattuale della corporeità contemporanea, un discorso sul corpo e sul valore che esso riveste nelle o per le scienze della significazione.
Detto questo, però, il corpo si è effettivamente guadagnato la considerazione di cui gode, non senza meriti ha conquistato il centro della nostra scena; il corpo ha in qualche modo imposto una nuova maniera di trattare l’ente, dopo filosofie della separazione dualistica tra principi metafisici opposti e alternativi. Senza poterci appoggiare ad esso, senza poter contare su alcune sue caratteristiche peculiari, non saremmo in grado oggi di pensare né il biologico né il mentale allo stesso modo, né, allo stesso modo, il somatico e lo psichico, il razionale e il sensibile, né per estensione il “naturale” e il “culturale”, né il reale e l’immaginario. Esiste una maniera contemporanea di intendere i rapporti tra i poli opposti di una supposta “realtà” che ha a che vedere precisamente con il corpo, in virtù di un aspetto della corporeità che questa rinascita ha consentito di mettere a fuoco e che si è venuta delineando insieme ad un recupero di una componente dinamica e processuale, quasi vitale ed energetica, che al corpo è intrinseca e che produce effetti considerevoli sull’immaginario delle scienze contemporanee. Il corpo è quel luogo in cui gli opposti del pensiero classico (naturalmente occidentale-metafisico-platonizzante, come ormai si suol indicare quasi in implicita premessa) entrano in circolo, si determinano a vicenda e si trasformano incessantemente l’uno nell’altro, come se uno fosse, nel corpo, la condizione dell’altro e come se il loro reciproco rapporto dovesse essere inteso “a condizione di corpo”, “secondo corpo”. In generale si può dire che il corpo è apparso come il luogo delle trasformazioni, tutte quelle trasformazioni “reali” per le quali il sensibile diviene intelligibile e viceversa, il biologico diviene mentale e viceversa, il naturale e il culturale si riversano l’uno sull’altro. Il corpo è il grande trasformatore, traduttore, luogo delle trasposizioni, dei trasferimenti; corpo come cerniera, come relais, come convertitore, come luogo dei rovesciamenti e delle metamorfosi.
La storia di questa apparizione, dell’apparizione del corpo come “condizione delle trasformazioni” , è in realtà una storia fatta di progressivi e parziali spostamenti e inversioni e forse, a ben vedere, la natura davvero mediana e mediatrice, condizione sostanziale, del corpo trasformatore non è ancora giunta al suo pieno fiorire, alla sua necessaria compiutezza. Abbiamo dovuto assistere, precisamente durante il corso di un secolo speciale e in un certo senso propizio, a molte danze intorno alla figura del corpo, a molti aggiramenti e assaggi e sfioramenti, a molte violente sperimentazioni pure, fino ad ottenere, da un lato, la sensazione di praticare un campo noto, battuto e in un certo senso oggettivato, ma, dall’altro, l’impressione di una voragine sempre prossima, per definizione oscura e attraente, il corpo come condizione invisibile della visione, pur nella sua flagranza, come condizione insensibile della sensibilità, pur nella sua ipereccitazione, e come condizione impensabile del pensiero, pur nella sua naturale rappresentabilità, condizione oggettiva del soggetto e, ovvio, soggettiva dell’oggetto. Le biblioteche si sono venute riempiendo, a poco a poco ma con un’accelerazione impressionante negli ultimi decenni, di tutte le variazioni possibili su questi temi, sulle modalità paradossali con cui spesso questi temi si sono presentati, e attraversando in successione o contemporaneamente più campi disciplinari, più tradizioni di pensiero, più orizzonti problematici: il corpo dello psicanalista, il corpo del sociologo dei media, il corpo dell’antropologo strutturale, il corpo del medico alternativo, il corpo del linguista comportamentista, il corpo dell’urbanista e quello dell’ergonomista, quello del geografo e quello dell’economista, il corpo dello storico del medioevo e quello dell’avanguardia artistica, fino alle più recenti esperienze di commistione tra creazione e cognizione, in un’idea sempre più allargata, influente e decisiva di sapere incorporato, di concettualità patemizzata, di forma logica tensivizzata.
Pure, si diceva, il corpo sembra suggerire, da quando ha preso parola, un campo di pertinenza che solo lentamente e con qualche fatica va apparendo, alla luce di tutte le esperienze che intorno al corpo si vanno accumulando. Il corpo sembra pretendere ad una sorta di originarietà, come una condizione preliminare che garantirebbe a suo modo il senso e la direzione, la pertinenza e la rilevanza, di tutti i percorsi della sperimentazione e di tutte le conquiste della conoscenza, una condizione legata precisamente alla nozione di “valore” per quel tanto che essa si è vista associata, nel pensiero novecentesco, alla nozione stessa di senso, di significatività.
Il corpo merita, o almeno pretende di meritare, una considerazione che tragga motivazione e ragione da questo punto centrale, da questa questione, da questa fonte: il corpo sembra darsi come il luogo del valore, il luogo del senso, e questo non realmente, o meglio non secondo una declinazione ontologica (come se questo corpo che mi tocco addosso potesse rendermi conto, in qualche sua piega da scoprire, del senso del mondo), bensì nella virtualità delle condizioni immanenti, ovvero come campo delle possibilità che rendono il valore effettivo, che lo attualizzano nella sua funzione di articolare senso. Secondo quest’ottica, il corpo cessa in un certo senso di essere ciò che media tra noi e il mondo, ciò che fornisce gli strumenti del nostro rapporto sensato con qualcosa che assumiamo come reale, ciò che fa deviare, secondo un’immagine assai diffusa nei retroscena implicitati delle nostre discipline, ciò che deforma, in uno qualunque dei tanti modi dell’illusione, o ciò che al contrario garantisce, suggella, lascia scorrere l’unico senso tra il soggetto e l’oggetto, con una consistenza che gioca con le trasparenze o con le rifrazioni. Al contrario, il corpo sarebbe il campo che contiene il gioco delle parti, una topologia che rende disponibili i posti che gli elementi in gioco vanno ad occupare, il corpo sarebbe quell’ordine o dimensione in cui le relazioni “prendono valore”, in un processo di trasferimenti e trasformazioni che partono dal corpo e tornano al corpo, che cioè si danno come sue emergenze, come sue riformulazioni o metamorfosi, all’interno di un generale processo di organizzazione della materia.
E’ a questo corpo che dobbiamo restituire un campo di pensabilità, a questo corpo che ha costitutivamente a che fare con la significazione, con il senso articolato attraverso tutte le trasformazioni del valore, con le trasposizioni tra codici e con i processi interpretativi, a un corpo che è significazione. Per farlo non si tratta di trovare un posto al corpo tra i concetti che costituiscono una teoria della significazione (pratica questa che ha visto un notevole successo nei tempi più recenti), di dire come una semiotica può dar senso al corpo, bensì di trovare una chiave di funzionamento della corporeità che ci renda conto dei concetti con i quali ci sembra di poter descrivere la significazione in atto; comprendere, in altre parole, la significazione “a condizione di corpo”, piuttosto che tentare di comprendere il corpo (e quale? il mio? il corpo umano? quello animale? o cos’altro?) individuando quale potrebbe essere un suo posto significativo.
In altri termini ancora: una teoria della significazione ha sì un campo di indagine che appare impellente e che è legato alla nozione di corpo, ma non tanto nel senso di trovare al corpo un posto al proprio interno, bensì nel senso di comprendere come il proprio campo di indagine, il proprio stesso oggetto e la propria stessa condizione di esercizio siano legati alla loro condizione di significazione incorporata, di quale sia, cioè, il proprio corpo, il corpo di sé in quanto teoria del senso.
Senza pretendere di poter produrre in questa sede un adeguato approfondimento della questione, ci limiteremo a indicare alcuni luoghi di tale articolazione, nel tentativo di render conto di come una teoria della significazione possa fronteggiare diversi campi di indagine che, nei fatti, vengono abitualmente praticati da molteplici sguardi e punti di vista e con diverse metodologie, spesso ripartite su diverse tradizioni disciplinari e pertanto con diversi oggetti specifici, ma legati tutti, oggetti e metodi, da una condizione comune che potremmo indicare semplicemente come quella del senso del corpo. Il nostro percorso seguirà sulle prime le variazioni di una corporeità molto “naturale” e molto immediata, ovvero il corpo che riconosciamo abitualmente come nostro, il corpo nella sua forma biologica ed umana, che è di fatto il corpo che si è imposto come grande tema della contemporaneità, quel corpo di cui tutti parlano e che sembra pretendere un discorso.
1. Il corpo-sostanza (ovvero: il senso si manifesta articolando la superficie)
La prima caratteristica con cui il corpo ci appare, o meglio con cui si impone, nei processi di significazione, è data dalla sua forma sostanziale. Il corpo sembra imporsi come sostanza, sostanza significante e sostanza significata. Il corpo appare come il luogo della produzione testuale, nel senso che su di esso e tramite esso si rende possibile il realizzarsi dei processi effettivi di semiosi, cioè di quei processi di formazione di apparati segnici che si prestano alle procedure di interpretazione cui la natura segnica è necessariamente sottomessa. In questa chiave, il corpo è il luogo del segno tracciato, supporto di iscrizioni, materia malleabile per diverse realizzazioni di segni, tessuto di tratti coordinati, testo appunto, letto, visto, ascoltato e allo stesso tempo è il detto, il concepito, l’immaginato, il consaputo.
Come testo, il corpo si è di fatto imposto prepotentemente sulla scena attraverso l’insieme sempre reiterato delle sue speciali trasformazioni, dei suoi scandali, che possiamo indicare come sue deformazioni salienti.
Per fare soltanto qualche esempio, una prima deformazione è quella del corpo come corpo malato; è il luogo di una significatività classica che, non a caso, ha grandemente contribuito fin dall’antichità alla messa a punto di una teoria del segno interpretabile, del segno da decifrare. Il corpo malato fornisce ad uno sguardo dedicato il materiale per un’intera teoria della significazione somatica, una teoria che si articola in realtà in una disciplina interpretativa che ha profondamente modificato, nel corso del tempo, la propria e la nostra percezione del corpo e che costituisce a tutt’oggi la base per un immaginario del corpo tra i più potenti e determinanti. Questo è il corpo della medicina, e per converso della salute, che ha attraversato molte versioni e che nel suo divenire ha conosciuto l’avvicendarsi di formazioni discorsive diverse, attraverso l’articolazione convergente di pratiche sociali e individuali, di istituzioni, di spazi concreti, di investimenti economici, di progettualità e di terminologie. Non è certo una storia ignota questa del corpo medicalizzato, del corpo come oggetto di cura che si è venuto realizzando attraverso molte profonde trasformazioni e che presenta oggi alcune caratteristiche specifiche, legate alla sua messa in scena pubblica e alla gestione titubante, incerta e approssimativa delle nuove potenzialità tecniche di intervento e di cura. Il corpo malato come significante è allo stesso tempo, anche se attraverso codificazioni variabili, il corpo significato come oggetto di cura, in una relazione semiotica che, nei suoi tratti più generali, è definita dalla malattia come campo di espressione per un contenuto che si sostanzia nella “natura del corpo”.
Una seconda deformazione è quella del corpo come corpo della moda. Il corpo “diverso”, il corpo “nuovo”, il corpo che si distingue, che appare nella propria coerente deformazione, secondo uno stile, secondo un gusto, secondo una dichiarazione di appartenenza esclusiva o distintiva. E’ il corpo che dice o che fa leggere la propria identità sociale nella misura in cui questa stessa identità sociale dipende dalle variazioni dell’apparenza, in una deformazione continua e regolata di queste stesse condizioni. E’ il corpo come leggibilità sociale dell’identità, chiamato a testimoniare della singolarità dell’attore sociale, che si dichiara occupare un posto localizzabile dentro una gamma di variazioni deformanti che prevedono la necessità dello scarto, dell’anomalia, dello stupore, dell’inaudito e che, nel valorizzare il nuovo come deformazione saliente, deve anestetizzare la memoria per non incorrere nel rischio della pura ripetizione. E’ un corpo, questo definito da un certo regime della propria visibilità, capace di farsi visibile o invisibile a porzioni, secondo uno smembramento tra schiena, gambe, capigliatura, ginocchia, spalle, scoperte o coperte, percorse da lacci o libere da stringhe, in una produzione di segni vestimentari (ma anche più generalmente decorativi: gli intonaci delle case, le decalcomanie sui telai delle motociclette, l’etichetta retro delle bottiglia di vino …) che giocano con la costruzione e la contemporanea decostruzione dell’identità significata, che profittano in maniera stupefacente della variabilità in quanto tale e delle trasformazioni continue tra codici e significati.
Una terza deformazione è quella del corpo sulla scena, del corpo che attraversa la soglia al di qua della quale vige lo spazio dell’essere insieme per collocarsi su un palcoscenico in cui va a significare in quanto oggetto obbligato della visione, dell’ascolto, dell’apprezzamento e caricato di una significazione supplementare. E’ il corpo dell’attore, del danzatore, dell’artista che si offre ad una lettura sdoppiata, corpo della simulazione sul quale si riproducono alla seconda potenza i tratti di una corporeità “naturale” ma che proprio per questo diventa il significante di una parte, di un ruolo, di una funzione, di una legge. E’ la sua simulazione a permettere la scoperta di una condizione più generale legata al corpo sociale, al corpo segno, che è precisamente questa condizione di simulazione generalizzata, quella per la quale il corpo significa anche sempre la propria appartenenza alla scena, non solo nella gestione regolata delle tante “messe in scena”, bensì negli infiniti modi in cui può crearsi lo scarto, può valorizzarsi la distanza, può prender senso la separazione, dai dibattiti in televisione al posto dell’oratore, dalla patente assenza alla costruzione sottile della propria imperscrutabilità. Si tratta di una significazione corporea legata all’organizzazione polare e asimmetrica dei processi di comunicazione, quella per la quale all’interno dello scambio comunicativo e della circolazione della significazione sociale vi è sempre un momento di dissimmetria, un legame privilegiato tra segno e interprete, una condizione di “necessità ad interpretare” dentro la quale possono prendere forma le relazioni di potere e gli squilibri relazionali che definiscono i conflitti e le loro letture.
Una quarta deformazione, ancora, è quella del corpo drogato. E’ il corpo che trasforma il contenuto prima ancora che l’espressione, deformando il regime di sensibilità e alterando i segni a partire dall’interpretato, dal mondo letto, visto, udito, toccato, secondo una modalità che trasforma ogni percepito e che si trasmette sulla superficie del corpo soltanto attraverso la mediazione di una interpretazione seconda, di uno sguardo avvertito e coinvolto, di uno sguardo complice. E’ l’inverso della deformazione precedente, della deformazione del corpo sulla scena; questo è il corpo al di qua della scena, al di qua addirittura della dimensione della condivisione, è il corpo nella sua radicalità (la radice quadrata, anziché l’elevazione a potenza), cioè la sua disponibilità a significare qualunque significato, a farsi significante zero, cioè esorbitante e iperdisponibile, per qualunque significato abbia l’avventura di incontrare nei suoi “viaggi”. Nella sua esistenza di drogato, il corpo si colloca dietro la rappresentazione e fuori dal circuito della condivisione per la ragione che i codici che semiotizzano il percepito diventano instabili e aleatori, troppo localmente determinati e in gran parte non partecipabili; i significanti che lo sguardo del soggetto legge sul corpo drogato sfuggono ad un ancoraggio codificato e, al contrario, accelerano con impertinenza tutti i rovesciamenti, le trasformazioni e le derive poiché possono scivolare tra le articolazioni incerte del contenuto allucinato.
Ma le deformazioni attraverso cui il corpo si impone, al momento del suo divenire testo, per essere colto e letto e decodificato come testo, sono ovviamente molteplici: il corpo transessuale che espone i segni degli attraversamenti di genere e così racconta la fragilità della ripartizione, oppure il corpo tecnologico che traduce l’arto nella protesi, l’organo nel circuito integrato, e racconta la nostra appartenenza al mondo degli oggetti, dei prodotti, o ancora il corpo del body building, scolpito dal potenziamento muscolare, che sembra tradurre nel segno stupefacente, e quindi nell’estetica dei concorsi, una sorta di naturale volontà di potenza.
E’ la dimensione della testualità, del segno realizzato, quella che accomuna i casi, certo non esaustivi, appena menzionati. Si tratta di quella dimensione in cui si possono riconoscere, identificare e immediatamente interpretare i significanti e i significati, in cui il corpo si offre come sostanza per la significazione, si presenta sulla scena della comunicazione e chiede di essere messo in circolazione, di essere decodificato. E’ inoltre questa, proprio in ragione di questa circolazione sociale del corpo come testo realizzato, la dimensione praticata dalle discipline della cultura, le quali, come semiologie non-scientifiche, si dedicano alla messa a punto delle interpretazioni riconoscibili, o legittimabili, o giustificabili, o più generalmente praticabili. Il corpo si offre al loro sguardo come uno dei luoghi privilegiati della testualità, nella misura in cui garantisce una straordinaria capacità di ricodificazione, di variazione e di rimodulazione dei segni che su di esso, con esso o in esso, possono prodursi. E le discipline del corpo, per indicare in qualche modo quegli orientamenti che dal corpo testualizzato si lasciano interessare, sono tutte discipline coinvolte necessariamente nella significazione, sono tutte discipline che affrontano il senso, proprio per il fatto che quel che incontrano sul corpo di cui trattano è questa capacità di produzione significante, questa vocazione alla trasposizione, questa necessaria semiosi che articola e continuamente riarticola espressione e contenuto.
Eppure, questa capacità del corpo di articolare e riformulare significazione fa della nozione di corpo qualcosa di meno identificabile di quanto appaia, o, in altri termini, qualcosa di più profondo e al contempo più generale. Il corpo di cui si occupano le discipline del corpo e del suo senso, dalla medicina alla psicologia alla sociologia all’antropologia fino a tutte le loro possibili commistioni contemporanee, solo a malapena sembra potersi confinare nel corpo di cui faccio quotidianamente esperienza come corpo-mio, nel corpo dell’assunzione ingenua con cui lo identifico, nel corpo tal quale appare nella sua forma di corpo umano. Il corpo su cui i meccanismi della testualizzazione si producono è ben altro e va ben oltre il corpo-mio, si dà in realtà come corpo-sostanza, come corpo-supporto, corpo-sostrato disponibile alla formazione significante, corpo come condizione di effettività per il senso manifesto, precisamente corpo come luogo della manifestazione, come dimensione della realizzazione. Valgano allora quasi alla lettera le tante metafore del corpo: corpo celeste, corpo sociale, corpo dell’armata, fare corpo, prender corpo, il corpo del reato e soprattutto l’idea di corpus in quanto costituzione di una forma testuale di omogeneità della sostanza significante. In questo senso il corpo, la nozione di corpo-testo, corpo-sostanza, definisce una possibilità intrinseca ai processi di significazione, ne esplicita una condizione necessaria, più che indicare un oggetto tra gli altri su cui esercitarsi, e nello stesso tempo fa riverberare su tutta la testualità realizzata le determinazioni che un’indagine sul corpo come testo può estrapolare o riconoscere. I testi, che sono l’unico oggetto proprio di uno sguardo “culturale”, vale a dire interessato alla significazione, si realizzano, come dicevamo all’inizio, “a dimensione di corpo”, in virtù della capacità traduttiva e traspositiva che deriva, tra le caratteristiche del corpo, dal suo essere a disposizione per connessioni e circuiti, associazioni e deformazioni, sempre nuove.
Una teoria della significazione, però, torna al corpo nel momento in cui si interroga su quali sono le modalità con le quali il senso manifestato può essere descritto e compreso, su quali sono i meccanismi che ci fanno intendere il senso incorporato, e ritrova allora il corpo in una dimensione soggiacente, in quella che, nel caso della semiotica, si chiama dimensione discorsiva.
2. Il corpo-immagine (ovvero: addensamenti e rarefazioni indicano i percorsi del discorso)
La capacità del corpo di fungere da supporto per la significazione, da superficie di iscrizione e da motore delle trasposizioni, si fonda su una caratteristica che definisce il corpo in quanto tale, nei suoi rapporti con gli altri corpi e con la soggettività che lo interpreta. Tale caratteristica è la sua necessaria presa di posizione.
Il corpo può significare, e può fungere da supporto sostanziale per la testualità che ne realizza i segni, a patto che prenda posto, che si collochi, che si posizioni a partire da una serie di coordinate che fungono da riferimento virtuale per le procedure di costruzione del discorso. In altri termini, il corpo non può significare se non come corpo enunciato, e le sue coordinate sono precisamente quelle dell’enunciato il quale si definisce in rapporto alla cosiddetta “istanza dell’enunciazione” ovvero all’istanza della sua attualizzazione, della sua effettuazione. Il corpo quindi non è mai solo testo, perché altrimenti sarebbe un testo disperso e fluttuante, un testo reale immerso nel caos della realtà empirica, quindi sarebbe supporto di significazione per nessuno, pura realizzazione causata e a sua volta causante, corpo come pura spinta. Per essere testo effettivo, allora, il corpo deve darsi per qualcuno, darsi a qualcuno come qualcosa, come corpo appunto, che è un altro modo di dire che il testo significa “a condizione di corpo”. I suoi segni, quindi, sono segni interpretabili a patto che si rendano disponibili nella dimensione del discorso, cioè che prendano posizione.
Parlare di corpo nelle scienze della significazione vuol dire allora parlare precisamente di questa istanza di collocazione, del momento della presa di posto, secondo modalità e prerogative che sono in effetti quelle di un corpo collocato, quelle di un corpo che si investe in una posizione.
Il corpo prende il proprio posto di discorso enunciato come un qualcosa in un certo spazio e in un certo tempo. Questo è tutto. Non c’è corpo che non stia, che non si sposti, che non emerga e svanisca, non c’è corpo che non abbia un proprio modo di insistere nella dimensione della propria effettività. Il modo-corpo, questo essere nuovamente “secondo corpo”, è appunto il modo di rendersi effettivo dell’enunciato, il quale allora non è pensabile se non come corpo, se non a partire da una serie di coordinate, appunto, che sono quelle che definiscono il modo corporeo di essere enunciato, di essere discorso prodotto, a un certo punto, di fronte a qualcuno, da qualche parte.
Nella dimensione del discorso il corpo attualizza le condizioni della significazione secondo il proprio modo che è quello della produzione di immagini, in un senso appercettivo generale, come effetto di senso che è un effetto “tra” sensi. Quella che sulla dimensione testuale è la capacità di traduzione e trasformazione, ora, sulla dimensione del discorso, ciò che ci permette di parlare del corpo dell’enunciato è questa capacità di produrre immagini, vale a dire di addensare tratti, di farli risuonare, di montare elementi in configurazioni complesse, di delineare scenari, di convocare altri corpi e di stratificarli in funzione di un punto di vista, di un’istanza di valorizzazione. La produzione di immagini è la modalità con cui il corpo prende posto nel discorso, quel suo modo peculiare di annodare in forme sempre rinnovate le fila che discendono dal sistema semplice delle coordinate: tempi che “fanno immagine” con identità, spazi che “fanno immagine” con aspetti, convergenze di tratti più o meno concreti, riconoscibili, sensibili o astratti, figure o valori.
Si tratta di un corpo sulla scena, ma in questo caso non è più la scena empirica e reale che costituisce uno spazio speciale per il testo, e per il corpo-testo, la scena delle messe in scena; la scena del discorso è una condizione generale di senso per quel tanto che definisce la dimensione della presa di posizione, e tuttavia esprime, come la scena precedente, quella caratteristica che consiste nello stare di fronte, o meglio ad una certa distanza; distanza incommensurabile questa, certo, distanza puramente funzionale, che delinea soltanto il fatto che un discorso è enunciato “per“ qualcuno, “per” un’istanza di enunciazione, e tuttavia distanza ineliminabile perché costituiva di quello scarto, di quel margine, di quella cesura che garantisce l’interpretazione, che garantisce all’enunciato di non dissolversi nell’indeterminazione dei possibili reali.
Su questa scena, o all’interno di questa scena, il corpo-immagine articola tratti che sono oggetto di ricerche importanti e che hanno segnato alcuni considerevoli sviluppi delle scienze della significazione e del linguaggio degli ultimi anni. Sia nel campo della linguistica degli enunciati che in quello della semiotica del discorso, il corpo si è imposto come un oggetto centrale per l’indagine sui meccanismi di produzione di effetti di senso legati alle strategie del discorso sociale e alla significazione di tutti quegli aspetti meno palesi, meno razionalisticamente comportamentali dell’agire, quali sono ad esempio tutte le configurazioni cosiddette passionali che hanno conosciuto un notevole impulso nelle ricerche attuali. Questo è stato reso possibile anche e soprattutto dal fatto che alcune caratteristiche del corpo-immagine hanno mostrato il proprio valore euristico e al contempo organizzatore e che su di esse si sono potute fondare, più o meno esplicitamente e consapevolmente, molte delle esercitazioni analitiche su enunciati concreti.
Il corpo prende posto secondo coordinate che gli restituiscono un certo “potenziale di immagine”, ed è questo potenziale di immagine che molte delle ricerche recenti tentano di esplorare. Ebbene, tali potenziali corrispondono a articolazioni categoriali che sembrano consentire, per l’appunto, la disimplicazione analitica degli addensamenti dell’immagine, il loro dispiegamento, e che consentono di ricostruire, a posteriori e analiticamente, percorsi di lettura come percorsi che si compiono all’interno delle immagini enunciate, come traiettorie o passaggi che selezionano di volta in volta elementi che acquistano valore, che risultano pertinenti, che si danno a leggere.
Anche per il corpo-immagine mettiamo in campo qualche esempio, provando ad abbozzare un percorso tra i tanti possibili.
Il corpo, a partire dall’esperienza che abbiamo del nostro corpo e della cosa come corpo, di ciò che occupa uno spazio in un tempo, sembra comportare una costituiva separazione tra un interno e un esterno, una loro messa in relazione, una loro articolazione. Si tratta di una sorta di confine, di delimitazione, intorno alla quale si producono, come è noto, una straordinaria quantità di effetti di senso possibili. E’ precisamente l’idea di confine, l’idea di ciò che delimita l’interno rispetto all’esterno che comporta la messa in tensione di tratti diversi e coordinati, e che restituisce, nelle sue varie possibili forme, immagini diverse e molteplici, immagini di conflitti tra popolazioni, immagini di prevaricazioni interpersonali, ma anche immagini di buone disposizioni, immagini di rituali di attraversamento, immagini di contatto, immagini di estensioni e espansioni o di contrazioni e compressioni, tutte immagini nelle quali possono tradursi tra loro, nella dimensione testuale, corpi diversi e inattesi, ma che sulla dimensione discorsiva costituiscono il fondamento di una certa organizzazione del valore, come il collante di un coacervo, come l’energia di tenuta reciproca tra elementi chiamati a convergere, come un vero e proprio addensamento, che è lo specifico appunto dell’immagine.
Intorno al bordo del corpo, a ciò che separa il suo interno dal suo esterno, si giocano altre immagini che non sono quelle del confine, ma che coinvolgono invece le tante figure possibili legate ai regimi di visibilità: che cosa e come si dà a vedere? chi e perché è abilitato ad osservare? quando il corpo si scopre? quando si lascia perlustrare, esaminare? quando si lascia indovinare? cosa differenzia la superficie visibile dalla superficie nascosta, coperta, celata o ripiegata? Non è più l’immagine del confine, ma l’immagine dell’involucro, della faccia, del modo di apparire.
E ancora, intorno alla separazione interno/esterno, possiamo pensare a tutte le immagini del segreto, dell’intimità, dell’emozione che viene ad alterare il colore della pelle, l’equilibrio dell’espressione del volto, tutte immagini dell’esplosione, dell’emersione, dell’affioramento, o al contrario del contenimento, della repressione, della rimozione. L’interno come il fondo, come il dentro oscuro, l’esterno come la superficie, come il fuori alla luce del sole. O al contrario l’interno come il tepore, come il coltivato, come il protetto e l’esterno come l’esposto, come il freddo siderale, come l’alieno.
Ma se riarticoliamo la categoria esterno/interno per procedere verso una dimensione della spazialità contenuta, allora la produzione di immagini si sposta di conseguenza e lo spazio del corpo circoscritto può a sua volta giocare con nuove categorie per nuovi addensamenti: spazi centrali e spazi periferici, spazi della stabilità e spazi della precarietà, oppure spazi della convergenza centripeta e spazi della divergenza centrifuga; o ancora immagini di centri elevati e periferie depresse, secondo l’innesto di una dimensione della verticalità che può coordinarsi con valori diversi nelle immagini che produce, la conquista del centro come una salita e un’ascesa, resa faticosa e penosa dalla sovrapposizione di una dilatazione temporale, o l’influenza sulle periferie come una calata repentina di principi di strutturazione imposti; ma il contrario è ovviamente possibile, come sempre nell’organizzazione immaginaria del corpo-discorso, e il centro può diventare il fondo verso il quale si rischia di precipitare se non si mantiene una tensione di appartenenza, di salvezza con il terreno circostante. E’ attraverso le articolazioni del centro e della periferia che si costituiscono le immagini dell’apparato circolatorio del corpo-mio, o dell’apparato nervoso, ma è così pure che la cosa enunciata, l’attore che prende posto sulla scena discorsiva, può diventare la figura dell’impero o quella delle prefetture cittadine, o il centro della galassia, o il mandala che leggo nella pupilla dell’amato.
E ancora, volendo, un circuito dell’immagine a partire da una nuova determinazione discorsiva: il corpo come occupante. Il corpo può apparire come ciò che riempie un vuoto, che occupa un posto, che prende posizione; il corpo che si appropria di un territorio, che si territorializza appunto dichiarando la propria appartenenza a ciò che, in fondo, non sono che coordinate di localizzazione, ma che al contempo dichiara l’appartenenza di un territorio a sé, alla propria specifica forma di possesso, che sia consumo, accumulo o dotazione di scambio. Secondo questa immagine i corpi si combattono come palle da biliardo, si colpiscono e si spostano reciprocamente, mettendo in gioco la tenuta delle loro appartenenze, la loro durata territoriale. Sono, nell’immagine dell’occupante, corpi qualsiasi quelli che si contendono i posti, e quindi sono popoli migranti come sono membri dei circuiti affettivi a schema (il posto in famiglia, il posto nella coppia, il posto nella compagnia, …), sono pedine sulla scacchiera (reale e metaforica) come sono concorrenti nella carriera aziendale. Il corpo che subisce la spinta, il corpo che la produce o la restituisce, il corpo che resiste, che perdura, che non si consuma o che al contrario si lascia erodere, consumare e matabolizzare.
Altro circuito ancora è quello delle sinestesie: il corpo come ciò che tocco, che annuso, che assaporo e ingoio, il corpo che avacuo o che palpeggio, quello che mi è addosso o cui sto addosso (come la sabbia del mare o la caverna in cui riparo), corpo minerale o vivente e pulsante, corpo caldo nel suo sudore o freddo nella morte, che da vivo muore o che da inerte si anima; corpo di tutti i percorsi possibili della sensibilità, dal fremito all’orrore alla rigidità assoluta.
E in questa serie di immagini, in questa sequenza qualunque di trasformazioni tra le tante con cui la produzione discorsiva quotidiana ci sommerge, il lettore avrà riconosciuto qui è là l’evocazione di altri tratti che sembrano appartenere alla configurazione complessa del corpo-immagine, a quel suo continuo aggregare elementi e combinazioni: corpo impermeabile e corpo poroso, corpo teso e corpo rilassato, corpo veloce e corpo lento, corpo unitario e corpo frammentario, corpo compatto e corpo diffuso, e così via in una successione di possibili che soltanto la pratica scientifica dell’analisi discorsiva potrà inseguire più che perseguire, chiamata com’è a farlo dall’esigenza interpretativa fondamentale che è data dalla presenza nel discorso dell’effetto di senso “secondo corpo”, della significazione “a condizione di corpo”, vale a dire dall’effettività del corpo-immagine.
3. Il corpo-massa (ovvero: vi è sempre qualcosa in relazione con qualcos’altro)
Il corpo, di cui fino ad ora abbiamo ricordato due dimensioni nelle quali interviene come condizione di significatività, sembra svolgere, in maniera assai meno evidente e secondo il modo dell’immaginario implicito, un ruolo importante anche nella costruzione di una teoria degli universali della significazione, vale a dire sulla dimensione di una grammatica generale della differenziazione e della processualità.
La teoria semiotica della significazione ha elaborato una rappresentazione piuttosto fine e articolata di queste condizioni più profonde e astratte delle articolazioni del senso, riconoscendo loro una relativa autonomia e organizzandole all’interno di quelle che sono state chiamate strutture semio-narrative, ad indicare la doppia vocazione che è stata loro riconosciuta, vale a dire, da un lato, quella di render conto delle fondamentali differenziazioni su cui si fondano le categorie semantiche e, dall’altro, quella della ricostruzione di una grammatica narrativa come modello per la comprensione della significatività dei processi semiotici, ovvero delle trasformazioni del valore.
Si tratta di un campo che è stato elaborato, per la verità, in una fase precedente alle glorie del corpo semiotico, alla teoria delle passioni, alla teoria della figuratività discorsiva, all’articolazione delle categorie aspettuali, all’elaborazione di un modello della tensività, tutti settori dove il concetto di corpo ha avuto la sua parte riconosciuta nell’elaborazione di strumenti descrittivi; si tratta però di un campo che costituisce un modello per la funzione semiotica più profonda e che allo stesso tempo rappresenta il luogo in cui si è realizzato l’innesto di un immaginario narrativo antropomorfo su una concettualità che risentiva, per buona parte e in una sua prima fase, di una vocazione logico-formale scorporata, per così dire disincarnata.
Ebbene, proprio la dimensione antropomorfa dell’immaginario narrativo, immaginario che ha costituito la base per una rappresentazione della grammatica profonda della narratività, è stata anche campo e oggetto di un dibattito importante che ha coinvolto diverse discipline e diversi punti di vista. Ora, forse proprio all’intersezione delle prospettive semiotica, filosofica, psicologica, sociologica e sopratutto antropologica con cui si è guardato al senso profondo dei processi narrativi è possibile individuare il posto per un operatore, comune e trasversale, di significatività, e restituire ad esso, in questa nuova versione e in questa nuova funzionalità, la stessa identità di “corpo” che abbiamo attribuito più sopra ad altre istanze di articolazione.
Una grammatica narrativa rende conto dei trasferimenti interattanziali di una stessa carica semiotica, per così dire, di una stessa “potenza”, che nella tradizione fenomenologica si è chiamata senza riserve “valore” e che si ritrova, proprio in quanto valore, sia nella storia della linguistica che in campi affini, sempre come questione profonda legata all’investimento, all’idea di trasferimento fondamentale, di orientamento, di disposizione, di un essere-per, un essere-verso, una protensione, quel gesto che dinamizza la circolazione tra la mancanza e l’equilibrio, che la rende possibile. E’ nel corpo, allora, che potremmo ritrovare una sorta di “fonte” di questa stessa carica, non traendo da un’immagine-corpo sempre molto determinata alcuni tratti di derivazione prettamente figurativa (schemi corporei, appetiti, involucri, identità ecc.), bensì ridefinendo il corpo come ciò che decide del valore, o, meglio, che fornisce al valore il suo terreno, il suo campo e il suo orizzonte e, soprattutto, come ciò che può restituirci la giustificazione del suo regime di funzionamento, di quella sua peculiare maniera di circolare che è fondamentalmente la riproduzione sempre reiterata e rinnovata di una profonda omeostasi, una equalizzazione dei potenziali, mai definitiva e sempre in gioco.
Sarebbe allora un corpo-massa quello che può fungere da regolatore di una tale omeostasi del valore. Nelle scienze fisiche la nozione di massa assolve ad alcune funzioni di cui è nota l’importanza. Una di queste è la funzione regolatrice che essa svolge relativamente ad una costanza di principio che la fisica riconosce tra accelerazioni e forze. Se potenziali di carica si creano e se tali potenziali non possono darsi che nella tensione con potenziali opposti in una sorta di pulsazione tra distanza e prossimità, tra tensione di carica e risoluzione di equilibrio, tra divaricazioni e nuove sovrapposizioni, allora l’immaginario narrativo della circolazione del valore secondo il modello fondamentale del riequilibrio della mancanza, così come è stato elaborato dalla narratologia contemporanea, non può che rappresentare una sorta di modello omeostatico a sua volta, secondo uno schema molto elementare e tuttavia molto influente di distribuzione interattanziale degli investimenti di senso. Il valore circola perché si sposta tra gli attanti, soggetti in conflitto, soggetti ed oggetti in giunzione, oggetti differenziabili, attanti autonomi ed eteronomi, come fosse una pura istanza di spostamento, casella vuota, in rapporto alla quale la costellazione attanziale assume di volta in volta una forma determinata.
Il corpo si presenta, in questo caso, come corpo-massa per quel tanto che funge da campo di ripartizione che impedisce la deflagrazione sulle traiettorie imprevedibili di un valore scorporato, che anzi fornisce al valore precisamente una “logica del corpo”, vale a dire una forma di organizzazione, forse un’”organizzazione senza organi” poiché non sono funzioni fissate una volta per tutte, bensì è l’istanza stessa della compossibilità, della tenuta, della coordinazione quella che nel corpo trova ragione e senso. E’ la caratteristica che fa della nozione di massa una nozione tipicamente regolatrice, secondo il principio per cui non si può togliere nulla alla massa senza che in seguito ve lo si ritrovi e nulla le si può aggiungere che non provenga da essa stessa, in un modello della circolazione che è tipicamente, al tempo stesso, omeostatico e dinamico.
E allo stesso tempo al corpo-massa potremmo ascrivere lo schema fondamentale dell’assiologia, delle assiologie, non già necessariamente secondo un modello proto-biologico, come più volte è stato proposto, bensì, più fondamentale ancora e tuttavia pur sempre incorporato, secondo il modello della gravitazione, dell’attrazione e repulsione tra masse, corpi-massa caricati positivamente o negativamente come avviene nella fisica elementare, corpi che si collocano in un campo relazionale dentro al quale le forme della giunzione producono aggregazioni o disgregazioni, spinte congiuntive o disgiuntive dipendentemente dagli stati di carica presupposti nelle trasformazioni attuali. Anche in questo caso lo schema è quello della disposizione reciproca tra le cariche, ovvero della disposizione reciproca degli attanti sulla base dei loro rapporti giuntivi col valore.
Il corpo-massa, inoltre, è necessariamente un tra-corpi, poiché nessuna massa può risolversi in valori determinati se non in relazione ad altre masse che fungano da riferimento, in un rapporto di reciprocità orizzontale, di lateralità e di equivalenze dinamiche, entro un orizzonte che è quello di un’istanza generale di co-valenza, di reciproca rilevanza, di coordinamento. Se nella fisica, tuttavia, un metro può darsi entro un quadro di definizioni convenzionali delle misure e delle quantità, nelle scienze della significazione la determinazione reciproca delle masse in gioco, entro una massa orizzonte che altro non è che la funzione-corpo come istanza regolatrice, resta radicalmente relazionale e qualitativa, perché il corpo di cui si tratta non è la cosa, non ha nessuna valenza empirica, non è né un oggetto né l’oggetto, bensì si offre come terreno, come condizione, come campo strutturale di emergenza.
Il corpo-massa non è allora un occupante, non è il qualcosa che abita il senso, bensì la casa entro cui il senso vive e si trasforma, è il luogo del senso, la sua dimensione. In questa accezione il corpo non è, ovviamente, un corpo naturale, bensì un modello di funzionamento, uno schema relazionale che distribuisce il valore tra gli elementi che vengono a popolarlo, tra i punti di ancoraggio della corporeità, attanti di una concatenazione sintattica che è il modello delle trasformazioni, degli spostamenti, delle traslazioni.
4. Conclusioni (dove si riprende l’assunto che la corporeità è la condizione)
In tutto il dominio del senso articolato, nel campo della significazione, il corpo è quanto. Il corpo è ciò che ci consente di parlare, in un certo senso a ragion veduta, di espressioni e contenuti realizzati, di discorsi effettuati e di processi di trasformazione sensati.
E’ in ragione del corpo che la significazione si articola, ma non secondo un modello del corpo significato, come è il corpo mio quando ne leggo i tratti sulle trasformazioni espresse, né secondo un modello del corpo significante, come quando regolo le significazioni possibili su normative sostanziali, né secondo l’ipostasi di alcuni circuiti propri di una corporeità data, una qualunque, come quella del corpo-proprio fenomenologico, né d’altronde secondo l’assunzione di un corpo-natura, come una forza quantificabile e legittimata da una conoscenza oggettivante; in altre parole nessuna teoria della significazione ha vantaggio nell’ipostatizzare una qualche forma di corporeità, fisica o metafisica che sia, noumenale o fenomenale che sia, quale fondamento delle proprie categorie, che non sarebbe altro che ridurre drasticamente la propria capacità di render conto del corpo (corpo-linguaggio, sostanza, immagine e massa) credendo di trarne ispirazione; il corpo della significazione, al contrario, è il principio della donazione di senso, il sistema di compossibilità tra elementi, l’enunciazione liminare al discorso enunciato e la composizione stessa semiosica tra i piani della testualità. Il corpo è ciò che garantisce la tenuta e la dinamica, l’identità e la trasformazione: i trasferimenti di valore, le collocazioni e gli spostamenti delle figure e le transcodifiche tra significanti e significati.
Il corpo, allora, non è altro che il significante di se stesso, e in questo significarsi produce e apre mondi dove i corpi (il mio, la cosa e tutti gli altri) possono installarsi come nello spazio delle loro reciproche interpretazioni.