Jacopo Cirillo
Sull’enunciazione (a partire da un caso limite) (clicca qui per scaricare il file in formato .rtf)
Nell’estratto 1 il protagonista del libro, che è anche la voce narrante e lo stesso autore empirico, si presenta negli studi di Mtv per un provino, per entrare a far parte di un programma della rete. Per 45 pagine si snoda l’intervista tra Laura Folger, l’addetta al casting e Dave, con tipiche domande oscillanti tra il banale e il prevedibile (ma sempre con risposte brillantissime).
Graficamente i turni di parola sono resi con l’uso del corsivo per le domande e del normale stampatello minuscolo per le risposte. Dunque corsivo per lei e stampatello per lui. Non ci sono altri personaggi presenti.
A un certo punto, inaspettatamente, dopo l’ennesima divagazione del giovane candidato, accade qualcosa: l’intervistatrice (o almeno colei che crediamo essere tale) smaschera Dave accorgendosi che “questa non è la riproduzione del colloquio così come è andato”. Anzi, “al vero colloquio non ci assomiglia nemmeno”, dilungandosi poi sulla bontà della scelta del ragazzo, un buon espediente per mettere insieme tutti gli eterogenei aneddoti della sua vita.
Dopo questo inciso tutto torna nella norma con la domanda di rito “dunque cosa pensi di poter dare al programma?”, riportandoci bruscamente alla realtà o meglio alla finzione.
Cos’è appena successo? Senza alcun preavviso e senza alcuna marca enunciativa da una normale situazione di intervista si passa ad un colloquio sull’intervista o meglio sul modo in cui l’intervista è stata resa. Ma resa dove? Evidentemente sulle pagine del libro. C’è una sorta di elevazione al quadrato dell’intervista, una metaintervista in cui il narratore/protagonista/autore empirico deve rispondere riguardo al modo in cui ha scritto l’intervista, al grado di fedeltà con cui l’ha riportata su carta. Ma chi glielo chiede? Non certo la stessa Laura Folger di Mtv, forse qualcuno che ha appena letto la parte sull’intervista nel libro che anche noi abbiamo in mano. Appena il lettore si rende conto di questa stranezza il patto finzionale appena rotto viene subito ripristinato, come appena visto.
La domanda insiste ancora: cos’è appena successo?
C’è stato evidentemente uno scarto tra due livelli tra loro dipendenti. La questione sta nello scoprire cosa li lega. E’ forse uno scarto temporale? Dunque un’inaspettata prolessi, l’autore qualche mese dopo l’intervista porta il manoscritto a Laura Folger che, ricordandosi bene com’era effettivamente andata, scopre il trucco?
La questione è legata indissolubilmente al problema dell’enunciazione, rappresentandone evidentemente un caso limite, ed è questa strada che bisogna battere.
Sappiamo ormai molto bene, dalle varie discussioni dell’anno scorso in questo seminario, la differenza di vedute tra l’enunciazione greimasiana (soggetto dell’enunciazione trascendentale, soggettività della presenza a se stessi, io qui ora, e del suo continuo disinnesco nell’enunciato) e quella interpretativa avanzata da Paolucci nel famoso seminario di due anni fa. Il rischio che si corre adesso è quello di partire già prevenuti e fare una caricatura della teoria che si considera sbagliata per risaltare i pregi di quella “giusta”. Penso invece, e questo è più uno spunto di discussione che un mio parere sulla cosa, che si debba analizzare questo caso (limite in verità) in entrambe le prospettive e vedere come possiamo rendere conto di ciò che accade.
Iniziamo da Greimas. Mettiamoci nei panni di un semiologo struttural-generativo.
Questa è senza dubbio un buon esempio di enunciazione enunciata, un po’ come quando la mdp inquadra, fa vedere, un’altra mdp sulla scena. Eggers ci sta mostrando l’atto di creazione, o meglio di correzione e discussione, dell’enunciazione vera e propria, inserendolo come inciso nell’intervista. Un passaggio dunque a un livello superiore, una metaintervista, una deissi lunga cinque pagine. Laura e Dave sono due simulacri installati negli studi di Mtv (non qui e non ora) e a un certo punto, con un sostanzioso embrayage, si torna al livello superiore, quello dell’enunciazione, della presenza a se stessi, in cui il soggetto dell’enunciazione risponde alle critiche sul suo operato, per poi assistere a un successivo debrayage e tornare al non qui e non ora degli studi di Mtv e continuare il colloquio come niente fosse (e in effetti niente è accaduto nella narrazione della fabula).
Se fossimo Paolucci invece diremmo che ogni soggetto dell’enunciazione è già sempre debrayato ben prima del suo atto di enunciazione, nel concatenamento enunciativo in cui la soggettività semiotica diviene costantemente altro da sé, perchè essa non è mai qualcosa di distinto dalla bava e dai detriti della semiosi in cui essa si trasforma e si riflette. Insomma non c’è bisogno della trascendenza per una teoria semiotica dell’enunciazione e nel concatenamento enunciativo avviene la famosa indiscernibilità tra le parti e tra i punti di vista in cui è impossibile attribuire se è l’autore che parla o il suo personaggio. Non c’è alcun embrayage dunque, il soggetto è sempre lì disseminato e circola tra i livelli enciclopedici, non possiamo sapere chi sta parlando con chi e di che cosa, un po’ come il discorso indiretto libero.
Quindi? Chi ascoltare? Prima di lasciare la parola al professore e a tutti voi vorrei considerare un paio di questioni importanti.
Primo: l’enunciazione enunciata. L’anno scorso in questo seminario si è detto una volta che l’enunciazione enunciata non ha ragion d’essere perché, essendo sempre il soggetto debrayato all’interno del concatenamento enunciativo, una mdp che inquadra un’altra mdp in un film non è un’enunciazione enunciata ma semplicemente un film in cui si mostra la lavorazione di un altro film, come forse in questo caso le pagine di Eggers sono semplicemente un libro che mostra una discussione sul libro (c’è ovviamente un effetto particolare di straniamento, ma non è da imputare alla presunta deissi bensì all’indiscernibilità delle parti).
Secondo: il passaggio non ben identificato né identificabile di un attore (Dave Eggers) fra tre ruoli attanziali: il protagonista, il narratore e l’autore. La domanda è: questo dinamismo influisce sull’effetto di senso del testo?
Latour dice:
Il romanziere “in carne ed ossa” non è l’enunciatore del suo romanzo. E’ un personaggio di un altro racconto, per esempio quello di uno storico, di un critico letterario, di un giornalista venuto ad intervistarlo. Appena incominciamo a nominare l’enunciatore, a designarlo, a dargli un tempo, un luogo e un volto, cominciamo un racconto, detto altrimenti, debraiamo a partire dall’enunciazione verso l’enunciato. Passiamo dall’enunciazione marcata all’enunciazione iscritta o installata nel racconto.
Ora, l’autore empirico non è l’enunciatore del suo romanzo, e fin qui siamo tutti d’accordo. Ma nel passaggio analizzato Eggers si pone effettivamente come enunciatore del testo, come se, da autore empirico, si installasse nel suo libro parlando di come ha scritto l’intervista che il lettore sta leggendo. Come se alzasse la voce e mettesse l’accento sull’intentio auctoris, come se dicesse: sono io che sto parlando, io signor Dave Eggers nato il 28 marzo 1970 in Illinois che sto scrivendo le pagine che hai in mano.
Il punto qui dunque è: ci riesce? Cosa succede se il romanziere in carne ed ossa si impunta e vuole essere l’enunciatore del suo romanzo, operando continui embrayage (veri o apparenti) e in pratica scrivendo che sta scrivendo il libro?
Guardiamo l’estratto 2. Il dialogo si svolge tra Toph, il fratello undicenne di Dave Eggers e Dave stesso. Quest’ultimo ha deciso, per promuovere la sua rivista, di inscenare la morte di Adam Rich, il Nicholas della famiglia Bradford, per aumentare la tiratura e sta raccontando della splendida idea al fratellino. Però, ed è la terza volta che accade dall’inizio del libro, Toph si esprime con modi e argomentazioni molto al di sopra della sua giovane età, rendendo quasi assurdo il fatto che un ragazzino possa padroneggiare un eloquio addirittura superiore al fratello di 14 anni più grande.
Un bambino insomma non può parlare così e Dave lo redarguisce dicendogli che sta uscendo di nuovo dal personaggio. E questa esternazione fa decisamente problema perché pare proprio che ad ammonire il piccolo non sia Dave “simulacro” installato nella narrazione, ma l’autore empirico. È’ come se Eggers autore si installasse in quanto autore nell’enunciato e redarguisse persino il fratello, il quale non è affatto un “buon simulacro” del fratello vero, anzi si ribella al ruolo che l’autore gli ha dato. E’ come se Eggers, in un delirio di onnipotenza, volesse essere il soggetto dell’enunciazione e non il semplice e ininfluente autore in carne e ossa e si inscrivesse nella narrazione in quanto occupante senza posto, che circola nel sistema e si palesa a volte in situazioni come quelle in analisi. Eggers capisce che se vuol giocare a fare il soggetto dell’enunciazione deve prima di tutto debrayarsi, essere il nunzio di se stesso in quanto autore che appunto come tale non conta: è proprio qui che si estremizza il concetto della soggettività semiotica che diviene costantemente altra da sé, è qui che si sublima il paradosso del nunzio, “l’impossibilità di separare il proprio punto di vista, la propria posizione, da quella del nunzio inviato a rappresentarci, pur essendoci per altro verso costitutivamente separati da lui. Ci distacchiamo dal nostro enunciato ma ce ne distacchiamo come da un qualcosa da cui non ci possiamo distaccare.”
E come può un soggetto dell’enunciazione trascendentale, presente a se stesso, che dispone dei suoi nunzi e dispone i suoi nunzi nell’enunciato, intervenire così impunemente, invischiarsi così bassamente nel concatenamento enunciativo, se non come soggetto costitutivamente lì, che è sempre stato lì, insieme ai suoi amati e criticati simulacri?
La domanda è ovviamente retorica.
Dave Eggers. L’opera struggente di un formidabile genio.
Estratto 1. pp. 166-171.
[…]
E la ragione per cui mi stai raccontando tutto ciò?
Non so. Sono semplicemente storie che racconto. Non è questo che ti interessa? Morti orribili che mandano in pezzi una comunità fino a quel momento intatta…
Un momento, dimmi una cosa. Questa non è la riproduzione del colloquio così come è andato vero?
Vero.
Al vero colloquio non ci assomiglia nemmeno, giusto?
Giusto.
È un espediente, questo andamento in stile di intervista. Inventato di sana pianta.
In effetti.
Un buon espediente devo ammettere. Una sorta di contenitore per tutta una serie di aneddoti che sarebbe stato inefficace combinare insieme in altro modo.
Esatto.
[…]
E dunque cosa pensi di poter dare al programma?
[…]
Estratto 2. p. 271.
“Aha. Se vuoi sapere come la penso, è da tarati.”
“E’ esattamente quello che pensiamo noi.”
“No, quello che intendo dire io è che è da tarati quello che state facendo. State usando Adam Rich per esprimere le vostre argomentazioni…”
“Ma certo.”
“E l’argomentazione che più vi preme esprimere è che voi potreste essere delle celebrità proprio come lui.”
[…]
“Toph, guarda che stai uscendo di nuovo dal tuo personaggio”.