Un digiunatore – Jacopo Cirillo e Simone Rossi

Martire in tutt’altro senso. Considerazioni intorno a Un digiunatore di Franz Kafka.

Introduzione: semiotica del corpo e precisioni metodologiche.

Borges diceva di Kafka che “in realtà lui voleva scrivere un libro felice e vincente, ma sapeva che non ci sarebbe riuscito. Avrebbe potuto scriverlo, certo, ma la gente avrebbe avuto l’impressione che non dicesse la verità. Non la verità dei fatti, ma la verità dei suoi sogni”.[1]

Questo racconto è scritto da Kafka e infatti è triste e perdente, come la storia di un artista prima acclamato e poi abbandonato ma sempre incompreso nella sua arte, un’arte che per sua stessa natura può essere compresa solo da chi la interpreta. La cosa che ci interessa qui è che Kafka abbia scelto come tempio e opera di quest’arte e del suo dramma il corpo di chi ne intraprende i disagi: l’arte del digiuno, il corpo del digiunatore.

Ragioniamo prima un poco sul corpo in semiotica e su cosa significa fare un analisi di un testo tenendo come orizzonte epistemologico una semiotica del corpo. Fontanille, lo sappiamo bene, considera quest’ultimo come referente ultimo e operatore primigenio di ogni semiosi; da qui la sua idea di un soggetto epistemologico “incarnato” capace di percorrere il percorso generativo e di operarne le conversioni tra livelli, percependo i contenuti significanti e permettendo l’emergenza di sistemi di valori. Non più dunque un percorso che si “auto-percorre” né un attante che si “auto-programma”. [2]

La critica che, tra gli altri, Lancioni fa a questo modello sostanzialmente si basa sulla contraddizione secondo la quale un soggetto operatore deve per forza di cose trovarsi al di fuori del percorso generativo esentandosi automaticamente dalla stratificazione del senso operata proprio dal modello teorico greimasiano. In questo modo però, sempre secondo Lancioni, il Percorso perde la sua euristicità visto che tralascia un istanza operatrice esterna a quel senso che, come ricorda Greimas, dovrebbe essere dato.

Dunque? In una comunicazione personale con Basso, mi è stato suggerito un particolare ragionamento: il problema starebbe a monte, cioè il percorso generativo stesso. Secondo Basso Fontanille, per portare avanti una semiotica coerente, dovrebbe liberarsi di questo fardello per non portarsi appresso critiche e dubbi pienamente legittimi come questi appena riportati.

Quello che noi pensiamo è che affidarsi da un lato a un assodato percorso generativo del contenuto e procedere dall’altro verso un’affannosa ricerca di un percorso generativo dell’espressione tradisca sostanzialmente quell’invischiamento costitutivo dei due funtivi che forse proprio il corpo può ribadire. Sinceramente non ritengo che il corpo, pur con la sua importanza teorica e la sua euristicità, possa essere il solido fondamento di una nuova semiotica; è vero però  che con la sua propriocettività è un’istanza in comune tra l’esterno e l’interno, tra un’espressione di cui è superficie di iscrizione e un contenuto di cui è l’involucro, è insomma una figura del discorso in cui chiaramente si palesa l’invischiamento costitutivo già citato; Fontanille a nostro parere fa bene a paragonarlo alla presupposizione reciproca di cui parlava Hjelmslev. Forse l’esagerazione sta nel porre il corpo fenomenologico come primo e dunque unico operatore della semiosi, a prescindere dalla considerazione del PG; bisogna invece, crediamo, annoverarlo esclusivamente come una seppur particolarmente rilevante figura del discorso e dunque ciò che va analizzato nel testo è il modo in cui viene figurativizzato e gli effetti di senso che si costituiscono a partire da lui in quanto figura.

Il corpo non è anche una figura del discorso, è solo tale.

 

Un piccolo inciso metodologico. Nella nostra scarsa cultura semiotica non ci rammentiamo di testi che suggeriscano particolari metodologie di analisi nella pratica, se non la Pozzato nel suo manuale in cui parla di “un’operazione preliminare sul testo, e cioè la sua segmentazione in sequenze […] un modo per rallentare e ordinare l’analisi”[3] o, in senso più lato, Sandra Cavicchioli che differenzia le tipologie di analisi secondo Greimas (che per cominciare privilegia “l’inizio della fabula, ovvero l’avvio delle strutture narrative”[4] ) e secondo Eco (il cui approccio interpretativo “rende anzitutto pertinente quello che verrà chiamato l’inizio del testo inteso come oggetto fenomenologicamente dato”[5]).

Qui vorremmo, come diceva Deleuze, aprire i concetti e instaurare un concatenamento, dunque prendere un po’ da una parte e un po’ dall’altra e costruire la metodologia che sembra più sensata. Si comincerà con una suddivisione in sequenze e un’analisi dall’inizio del testo atta precipuamente a individuare le figure del corpo in gioco e ciò che apportano alla gestione e alla costituzione del senso del racconto.

Divisione in sequenze.

  1. presentazione dell’arte del digiuno. Messa in mostra del corpo del digiunatore (“palpare la sua magrezza”) davanti a piazze gremite per l’evento.
  2. tormenti dell’artista. Sfiducia dei guardiani riguardo al suo digiuno assoluto, ma il pubblico deve sapere e ammettere la grandezza della sua arte.
  3. consapevolezza del digiunatore dell’inscindibilità e dunque della legittimità dei sospetti riguardo alla sua arte: “solo lui poteva essere contemporaneamente lo spettatore perfettamente soddisfatto del proprio digiuno”. Per lui digiunare risulta facile ma questo attira accuse di ciarlataneria mal digerite.
  4. aspetti tecnici dello spettacolo. Spettacolarizzazione del suo corpo ma indignazione del digiunatore per i riguardi e i limiti posti dall’impresario (“perché smettere proprio adesso, dopo quaranta giorni?”). Martire in tutt’altro senso, non per le conseguenze della fame ma per l’insensibilità del pubblico.
  5. fulgore e allo stesso tempo malinconia. Mistificazione dell’impresario che associa la malinconia agli stenti; perdita della speranza, “combattere contro quell’insipienza e contro questo mondo di stolti era impossibile”.
  6. declino. “si vide messo da canto dalla folla […] la quale ormai preferiva volgersi ad altro genere di spettacoli.” I tempi sono cambiati, l’interesse si affievolisce (ripresa dell’affermazione iniziale del racconto, fine del flashback).
  7. scrittura in un circo, il digiunatore si vede sottovalutato e relegato vicino alle stalle nonostante la sua imperitura voglia di strabiliare il mondo. Cerca nel pubblico attenzione e sensibilità per la sua arte ma “era sempre e immancabilmente tutta gente che voleva visitare le stalle”, attratta più dalle bestie che da lui che “rappresentava un inciampo nel percorso”.
  8. rassegnazione. Riguardo all’arte del digiuno “è perfettamente inutile cercare di farla capire a chi non ne è sensibile”. Nessuno conta più i giorni, nessuno stria più il suo tempo. Il mondo lo ha defraudato.
  9. dialogo con l’inserviente. Il digiunatore rivela di non aver mai trovato un cibo che lo soddisfacesse e dunque di non meritare l’ammirazione altrui. Muore tra la paglia, nell’indifferenza.
  10. nuovo inquilino nella gabbia, una pantera (a cui piace il cibo, viene sottolineato) che diventa un’attrazione, raduna spettatori che “non volevano più saperne di andarsene di lì”.

Come anticipato non tratteremo di percorsi generativi con le relative aspettualizzazioni e modalità, non tratteremo delle inferenze e della cooperazione che il testo cerca di instaurare con il suo lettore modello, né di altri esaustivi modelli di analisi. Qui ci si limiterà, per questioni di spazio e di scopo prefissato, ad analizzare le figure del corpo nella narrazione.

Figure del corpo nel testo.

Sembrerà banale (ma non lo è), cominciamo dall’inizio. Nella prima sequenza il narratore spiega che un tempo il digiuno in tribuna era considerato una vera e propria arte e tutta la città ne era coinvolta entusiasticamente. Procedendo, come un buon lettore interpretativo, per anticipazioni e retrospezioni, avanti e indietro, a seconda degli stratagemmi, delle trappole o degli indizi che il testo mette in gioco, notiamo subito che nella quarta sequenza ci viene proposta una vera e propria spettacolarizzazione dell’evento: “la porta della gabbia tutta cinta di fiori”, “una banda militare suonava”, “l’anfiteatro gremito da un pubblico entusiasta” e così via.

Si delinea qui una prima figura del corpo: il corpo spettacolarizzato. Fontanille giustifica l’emergenza di una forma attanziale incarnata come un’interazione tra materia ed energia che dà luogo a forme e forze; l’emergenza citata avverrebbe dunque in termini di eccitazione e inibizione delle forze sul corpo che, combinate con principi di resistenza e inerzia, costituirebbero una zona di equilibrio privilegiato. L’attante dunque è formato da un’interazione tra materia e energia. Fontanille riconosce nell’attante corporale due istanze fondamentali, la carne e il corpo proprio. La carne è i) “ciò che resiste o partecipa all’azione trasformatrice degli stati di cose” e ii) il “centro di referenza” e della presa di posizione del corpo nel mondo. Il Me. Il corpo proprio è invece “ciò che si costituisce nella semiosi”, ciò che si costruisce nel discorso in atto. Il Sé.

Posti questi ponderosi concetti, nel caso del digiunatore abbiamo una dinamica particolare: il corpo che gli spettatori acclamano entusiasti risponde senza dubbio alle caratteristiche del sé, è il corpo costruito dal tirannico impresario, da dare in pasto alla folla. Ma, e questo è il punto, affinchè il corpo costruito possa prosperare è necessario negarne l’accezione carnale e sensomotoria: corpo denutrito (togliere materia) e immobile (costretto in gabbia). Alla fine del racconto il digiunatore quasi non muore, si dissolve tra la paglia.

Ecco allora che si costituisce una particolare forbice: per affermare un’istanza corporale bisogna tradire l’altra, per far proliferare l’energia bisogna togliere la materia, abbattere le soglie di resistenza e far sì che le forze intacchino la forma e la esauriscano. Lo spettacolo dello scompenso.

 

Andiamo avanti. Già tra la seconda e la terza sequenza siamo resi partecipi dei tormenti dell’artista. I guardiani non credono nella sua buona fede sospettando continuamente un suo furtivo pasto, la gente addirittura lo accusa di ciarlataneria nel sentirgli ammettere la leggerezza del suo fardello e il suo impresario spiega al pubblico la malinconia del digiunatore come conseguenza della fame, causando un’ulteriore depressione nell’artista che addirittura si sente defraudato dalla gloria. La frase più importante, riportata tra l’altro nel titolo di questo lavoro, parla di “quel pietoso martire che d’altronde il digiunatore era effettivamente, anche se in tutt’altro senso”. Nella quinta sequenza infatti ci viene letteralmente palesata la causa dei tormenti, la tensione continua tra un apparente fulgore e gli onori del mondo e una grave malinconia interna che “diveniva sempre più grave proprio per il fatto che nessuno riusciva a prenderla sul serio”. Se riflettiamo qui c’è effettivamente una tensione tra il dentro e il fuori, tra l’io e l’altro, ma non impigliata in facili binarismi esterno/interno. Fontanille dice che il corpo-involucro (un punto di vista sul corpo che è contemporaneamente anche movimento) è il reale crogiolo della funzione semiotica e funziona da interfaccia; assicura cioè la comunicazione tra interno ed esterno, tra ciò che contiene e ciò per cui funge da superficie di iscrizione. Il corpo-involucro è, secondo il semiologo francese, il corpo proprio, cioè nel nostro caso, l’immagine del digiunatore che suscita entusiasmo o indignazione nel pubblico.

In effetti di solito funziona così: un corpo malnutrito, sparuto e rinchiuso è espressione di malinconia, rabbia, tormenti. Ma nel nostro caso c’è un problema, un misunderstanding. Non c’è reale comunicazione tra i due domini; il digiunatore è sì malinconico ma non per la fame bensì per la stoltezza e l’insensibilità del pubblico che non capisce la vera ragione della malinconia, che altro non è che la loro stessa stoltezza e insensibilità. Un circolo vizioso innescato e alimentato proprio dal corpo-involucro che sezionato nelle sue parti funziona (è una efficace superficie di iscrizione, la magrezza si può “palpare” e ovviamente un soddisfacente contenitore) ma che difetta nella comprensione reciproca. Come dire che il corpo involucro non assicura la comprensione della funzione segnica e/c; i due funtivi si presuppongono reciprocamente ma il pubblico non capisce che cos’è che li lega.

Ecco dunque la nostra seconda figura del corpo, il corpo frainteso.

 

Proseguiamo nel percorso avanti e indietro tra le sequenze. Nella terza il digiunatore raggiunge una consapevolezza, la consapevolezza dell’inscindibilità dei dubbi e dei sospetti del pubblico rispetto alla sua arte. Si rende conto che solo lui poteva essere lo spettatore del proprio digiuno. Il disagio si acuisce nelle ultime sequenze, dalla settima in poi. L’artista arriva nel circo armato di propositi di sbalordire il mondo ma la gente sembra negargli il proprio interesse e la propria sensibilità. Lo evitano, lo considerano solo un inciampo nel percorso verso le stalle e lo portano a rassegnarsi fino a fargli pensare che è inutile cercare di far capire l’arte del digiuno a chi non ne è sensibile. L’evento che sancisce il totale disinteresse del mondo verso la sua arte è l’assenza di qualcuno che contasse i giorni che l’uomo passava senza mangiare. Nessuno, per dirla con Deleuze, striava più il suo tempo e tutta la sua arte perdeva di senso. E forse è perché la sua arte ha perduto di senso che, nella nona sequenza, ammette di aver intrapreso il digiuno solamente perché “non sono riuscito a trovare il cibo che mi soddisfacesse”.

Comunque sia, la questione è un’altra. La concezione di arte che emerge dalla personalità del digiunatore richiede anzitutto sensibilità, partecipazione e fiducia nel pubblico. Il protagonista la cerca costantemente senza mai trovarne, peggiorando al contrario sempre di più la sua vita dunque il suo approccio stesso all’arte, fino ad arrivare ad ammettere di non meritare nessuna ammirazione. Come abbiamo visto prima nel caso del corpo frainteso sostanzialmente la gente non lo capisce, è abbagliata dalla stranezza e dall’innaturalità del suo corpo che considera non certo arte ma fenomeno da baraccone (non è un caso infatti che il suo declino coinciderà con il circo, il grande baraccone, insomma).

Ripetiamo, lui è l’unico a poter essere lo spettatore della sua arte e questa condizione ineluttabile lo consuma, lo fa trincerarsi dentro di sé, in quel teatro interiore del Sé che Fontanille chiama, in una topica somatica, Sé-campo interno. Si richiude e si rinchiude in se stesso non potendo trovare conforto nell’altro, si trincera dentro l’unico teatro che può apprezzare la sua arte senza ormai far entrare più nessuno, anzi tenendo la gente alla larga col deterrente del proprio demerito. Non c’è più comunicazione con il fuori, il corpo proprio spettacolarizzato viene rinnegato e tenuto fuori anch’esso, e la stessa sorte tocca al Me-carne; c’è solo un corpo ripiegato su se stesso che lentamente si finisce, un corpo chiuso.

Abbiamo visto la successione di tre figure del corpo e ognuna di esse contiene o rappresenta una problematica, un intoppo nella teoria del corpo come unico operatore di semiosi. Nel corpo spettacolarizzato materia ed energia sono in un rapporto degenerativo, nel corpo frainteso l’involucro non assicura la comprensione della funzione segnica e nel corpo chiuso le due istanze fondamentali dell’attante vengono negate da un corpo che ribatte su se stesso e che fa cigolare la topica somatica assumendo il campo interno come unico luogo figurativo.

Che cosa ci dice dunque questo concatenarsi di s-figure del corpo? Ossia – e questa dovrebbe essere la domanda ultima di ogni analisi semiotica che voglia dirsi tale – qual è l’effetto di senso di questo testo?

Ci si interroga molto sullo statuto del corpo: quello che stiamo facendo oggi è interrogarci sullo statuto del corpo del digiunatore, ossia sulle ragioni d’essere di un’istanza che si magnifica proprio per il suo annichilimento. Il corpo del digiunatore, figura di un’assenza bramata, è il centro gravitazionale delle attenzioni di tutti i personaggi di questo racconto: spettatori ammaliati e impresari senza scrupoli, guardie sospettose e “iniziati” comprensivi, bambini curiosi e vallette disgustate. Verrebbe da dire, a voler fare gli strutturalisti, che il corpo del digiunatore è la casella vuota: tiene in tensione reciproca tutte le serie, le fa muovere. Ma il movimento è disarmonico, perché il corpo – pur rinsecchito, rifiutato – c’è, e la sua carne è il sabotaggio degli ingranaggi dell’inquietante showbusiness circense. Come giustifichiamo questa disarmonia? E’ sufficiente dire che questa casella vorrebbe essere vuota ma non ci riesce, e allora le serie non sono libere di circolare come vorrebbero?

Evidentemente no, se no avremmo già finito di parlare. Quello che ci pare di notare nell’incrociarsi di sguardi su questo scheletro ambulante è la manifestazione figurativa di uno scontro tra logiche incommensurabili: la logica del digiunatore smantella la logica della gente (cioè il senso comune), e viceversa.

Che cosa vuole fare il digiunatore? Ovviamente digiunare. Non solo, egli è un artista del digiuno, e pretende quindi che la gente riconosca la sua arte, il suo talento. Meglio: la sua virtù. Dice Paolo Fabbri che la differenza tra il talentuoso e il virtuoso è tutta qui: il talentuoso ti fa vedere quanto è bravo; il virtuoso non solo ti fa vedere quanto è bravo, ma ti fa vedere anche con quanta facilità esegue manovre che tu non riusciresti mai ad eseguire, ti mostra dove tu avresti sbagliato andando liscio dove tu inciamperesti.

Che cosa vuole fare la gente? Ovviamente mangiare. Conservare il corpo. Mens sana in corpore sano, il tempio del corpo, sei ciò che mangi: il senso comune ci dice che se vogliamo vivere dobbiamo nutrirci. Ma di fronte a noi abbiamo una persona che si guadagna il pane non mangiandoselo, e che in definitiva disconosce il nostro sistema di valori alla radice. Per questo lo guardiamo con distacco: compassione/compiacenza nella migliore delle ipotesi (il sorvegliante che raccoglie la sua ultima confessione), dichiarata sfiducia nella peggiore (l’alternarsi dei turni di guardia e il perenne sospetto che possa mangiare di nascosto).

Si tratta dunque, come dicevamo, di un fronteggiarsi di logiche antitetiche: le sbarre della gabbia separano due atteggiamenti incompossibili, che si ritrovano ad esistere insieme e per questo stridono. Parliamo di scontro tra logiche proprio perché il problema è nel modo in cui i personaggi di questo racconto danno senso al mondo:

–                     il digiunatore è martire “in un altro senso”, dimagrisce per insoddisfazione e non per mancanza di cibo, ma nessuno sembra capirlo;

–                     i suoi sporadici accessi d’ira sono la conseguenza della fine anticipata del digiuno, e non la causa (cause scambiate per conseguenze: la questione è squisitamente logica);

–                     per gli impresari i quaranta giorni di digiuno sono solo la preparazione al grande spettacolo del primo “pranzo da malato” del digiunatore, ossia si cerca lo spettacolo dove non è (un’arte del procrastinare non può per definizione trovare compimento, un po’ il penultimo bicchiere dell’alcolizzato per Deleuze);

–                     “Il digiunatore non imbrogliava, lavorava onestamente, ma il mondo lo defraudava del suo premio”: De Quincey ha scritto un trattato intitolato “L’assassinio come una delle belle arti”, dicendo che ci sono modi più o meno belli per togliere la vita a una persona, ossia che si può fare dell’estetica anche in assenza di etica. Ma la gente non potrà mai capire la bellezza di un assassinio, perché la logica dominante è la preservazione della vita: allo stesso modo il mondo defrauda il digiunatore, perché non può apprezzare esteticamente qualcosa che non può (logicamente) comprendere;

–                     il desiderio del digiunatore non è quello di diventare “il più grande digiunatore di tutti i tempi, il che probabilmente già era, ma di oltrepassare persino se stesso, fino all’inconcepibile, dal momento che non sentiva nessun limite per le sue capacità di digiunare”: il suo destino è segnato, desiderare l’inconcepibile è condannarsi all’incomprensione.

E quindi l’ignoranza diventa diffidenza: se nei bei tempi passati il digiuno era apprezzato come arte (la marcatura del racconto tra un passato nostalgico ed euforico e un presente disincantato e disforico è evidente), oggi nessuno guarda più il digiunatore. La distanza tra (logica del) digiunatore e (logica del) pubblico si fa manifesta e incolmabile proprio nella diserzione degli spettacoli: “un giorno il digiunatore (…) fu abbandonato dalla folla amante dei divertimenti, che piuttosto accorreva ad altri spettacoli”. Viene tagliato l’ultimo legame tra digiunatore e mondo: il digiuno smette di essere uno strano e affascinante spettacolo, e diventa una cosa noiosa che non incuriosisce più nessuno. La gente non lo capisce, e quindi non lo apprezza. L’incommensurabilità tra prospettive è totale: “se devi chiedere che cos’è il jazz non lo saprai mai” diceva Louis Armstrong; “Tenti qualcuno di spiegare l’arte del digiuno! A chi non la sente, non la si può far capire” dice Kafka. Fatte le dovute proporzioni, la forma di relazione soggiacente è la stessa: se non la senti non la capisci, ossia la tua logica non basterà mai per categorizzare un paradigma radicalmente altro.

Per questo il digiunatore può meravigliare veramente il mondo solo nel momento in cui il mondo rinuncia a farsi meravigliare: diventato un semplice “ostacolo sulla via che portava alle stalle”, l’artista può finalmente esprimersi in tutta libertà e digiunare per sempre, oltrepassare persino se stesso nel disinteresse del mondo che, come detto, rinuncia a striare lo spazio della sua performance.

Verrebbe da dire che il digiunatore si afferma negandosi, ma rifuggiamo da questo binarismo spicciolo per notare qual è la vera profondità della sua arte: egli non afferma la propria negazione, gesto che in quanto tale richiederebbe una volontà autoriale e che sarebbe tutto sommato comprensibile (ossia incasellabile sotto un logos, seppur perverso). Il digiunatore si toglie il merito del proprio digiuno, si nega in quanto autore: il suo è un fanatismo, non una scelta consapevole. Il digiunatore non fa il digiuno: è s-fatto dal digiuno. Il digiuno è più forte di lui, e lui non può farci nulla: “Non riuscivo a trovare la pietanza che mi piacesse. Se l’avessi trovata, credimi, non avrei fatto tanto chiasso e mi sarei rimpinzato come te e tutti”. Queste sono le ultime parole che sussurra all’orecchio del sorvegliante, “con le labbra appuntite come per un bacio”: morto il corpo, annichilita la carne, il digiunatore disconosce anche l’energia vitale che informava attivamente questo corpo, mantenendosi coerente fino in fondo alla sua logica autoriale. Ci pare quasi una caricatura della superiorità dell’intentio operis sull’intentio auctoris. Non è merito mio, non sono io, ecco la mia opera, ecco che scompaio: il digiunatore ha oltrepassato persino se stesso, diventa paglia e muore.

Dice Claudio Magris che l’ebreo Kafka è come Mosè: pur anelando alla Terra Promessa, morirà prima di poterla calpestare. E’ il senza terra, lo sradicato, la perenne tensione irrisolta. Per questo ci inquieta: noi stasera torneremo a casa, lui una casa dove tornare non ce l’ha. E magari per questo potrebbe rubarci la nostra. Noi abbiamo un corpo, i più fanatici tra noi ne parlano addirittura come del veicolo del nostro stesso essere al mondo: dal corpo partiamo e al corpo ritorniamo, se vogliamo capire qualcosa di questo Senso che ci avvolge. E invece c’è qualcuno che non ha un corpo/casa a cui ritornare con il proprio bottino, e muore disseminandosi come la paglia in una gabbia vuota: mostrarci che esistono altre logiche (apparentemente) inconcepibili è a nostro parere il compito ultimo di un grande artista. O per lo meno di un grande racconto: “Se il libro che leggiamo non ci sveglia come un pugno sul cranio, a che serve leggerlo?” (Kafka, Lettere).

Conclusioni.

 

Con questo breve lavoro non pretendiamo certo di aver trovato critiche determinanti alle fondamenta teoriche del corpo semiotico fontanilliano. Vogliamo piuttosto da un lato ribadire il fatto che, nella testualità, considerata da Basso come “terreno di irradiazione e gestione locale di correlazioni semiotiche […] dotata di una specifica organizzazione e di proprie configurazioni”[6], risulta decisamente più euristico pensare il corpo come figura locale del discorso, considerarla come tale e analizzare gli effetti di senso che se ne producono e dall’altro sottolineare l’eccessiva rigidità delle lessicalizzazioni e dei modelli teorici di Fontanille riguardo al corpo come unico operatore della semiosi (dire che ne è l’operatore primo e il referente ultimo significa appunto affermare la sua esclusività). Localmente, nei testi specifici, non funziona sempre così, non sempre materia ed energia cooperano per stabilizzare una forma attanziale, non sempre il corpo risulta essere un’efficace membrana tra l’interno e l’esterno, non sempre si dà una topica somatica dei modi del sensibile coerente e ben disposta. Risulta dunque più utile semioticamente andare a vedere nei testi come il corpo viene figurativizzato e desumerne localmente le categorie e gli effetti di senso di cui quest’ultimo, in quanto superba figura discorsiva, è di certo inesauribile produttore.


[1] J.L. Borges, L’invenzione della poesia, Milano, Mondatori, 2004, p. 50.

[2] J. Fontanille, Figure del corpo, Roma, Meltemi, 2004.

[3] M.P. Pozzato, Semiotica del testo, Roma, Carocci, 2001, pp. 50-51.

[4] S. Cavicchioli, a cura di, Le sirene, Bologna, CLUEB, 1997, p. 32.

[5] Ivi, p. 33.

[6] P. Basso, “Analisi, interpretazione, testualità” in A. Frigerio e S. Raynaud, Significare e comprendere, Roma, Aracne, 2005, p.3.

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