7 – Brevi su enunciazione e tensività

Un’aspetto dell’enunciazione che secondo me dovremmo trattare un po’ approfonditamente è l’opposizione tensiva (o partecipativa che dir si voglia) che si instaura fra enunciato ed enunciazione. Cioè: l’enunciato, il nunzio che prende la parola e dice che quello che lui dice è la stessa cosa che un altro dice, è contemporaneamente parola e portatore di parola (sotto un certo rispetto). Non deve fare altro che dire quello che deve dire, ossia in definitiva si identifica con il suo discorso (è quello che parla, se vogliamo usare una formuletta), ma contemporaneamente modula questo discorso con la propria voce: dice quasi la stessa cosa. La sua è una traduzione, ossia in definitiva il lavoro di un interprete (un interpretante, per essere peircianamente ortodossi). Un costitutivo essere insieme: Paolucci riprende Pasolini e ci fa vedere come questo sia il funzionamento dell’indiretto libero in letteratura e della semisoggettiva al cinema, ma i suoi sono semplicemente degli esempi, come è un esempio quello del traduttore che riprende da Eco. Euristici per capire di che cosa si stia parlando, ma esempi.

Io per dire vedo l’enunciazione come un’interpretazione nel senso musicale del termine: Frank Sinatra è il più grande interprete di standard jazz di tutti i tempi. Perché è il più grande? Perché gli riesce un’acrobazia funambolica non da poco: è contemporaneamente fedelissimo alle partiture (niente manierismi o gorgheggi alla Aretha Franklin) e d’altra parte è riconoscibile all’istante. Garantisce il rispetto giuridico della parola data, Gerswhin può contare solo su di lui nel momento in cui vuole dire qualcosa alla gente: come dice Metz (L’enunciazione impersonale, pag. 26), “l’enunciatore si incarna nell’unico corpo disponibile, il corpo del testo”. Insomma: l’enunciatore è il testo. Ma il testo, in quanto produzione dell’enunciatore, è anche l’enunciato. L’enunciato è il testo. Occhio però: la perversione sociosemiotica che di fronte a due corsivi del genere direbbe: “Ecco! Vedi! Tutto è Testo!” vedrebbe il problema dal lato sbagliato per due motivi. Innanzitutto non è vero che tutto è testo, quanto piuttosto tutto è testualizzabile: il testo è una categoria di analisi e non un dato di fatto, l’ha ripetuto Edo l’ultima volta e chi non è d’accordo/non ha capito può anche fare a meno di fare semiotica. Ma soprattutto, questa enunciazione che avviluppa in sé enunciatore ed enunciato in un concatenamento che come tale fa perdere i confini fra i termini relati, è esattamente il punto nodale dell’apporto interpretativo alla semiotica: parlare di enunciazione come debrayage, come schizìa creatrice del soggetto che convoca tutta una serie di elementi in risalita lungo il percorso generativo è palesemente antropocentrico e decisamente riduttivo.

L’enunciazione si dà (notare l’impersonale), in divenire, nelle pieghe del continuum, e il soggetto non ha alcuna prerogativa su di essa: la frase Matteo dona un fiore a Greta diviene ugualmente sgrammaticata sia che si elimini Matteo, sia che si elimini fiore sia che si elimini Greta. Chiamiamola logica dei relativi (Peirce), chiamiamola teoria delle valenze (Blanchot): basta dimenticare per un attimo lo sfortunato abito occidentale della struttura soggetto-predicato per capire che il soggetto non ha alcuna autorità sulla determinatezza del senso. C’è l’evento, quella che Deleuze e Guattari chiamano ecceità (“individuazione senza soggetto”), e solo successivamente i poli del discorso vanno a posizionarsi dove meglio credono.

Il segno mostra, l’interpretante dice: molto del problema sta qui, nell’inemendabile struttura linguistica con cui si dà ogni percetto (vedi i saggi anticartesiani di Peirce). Per la lingua bisogna passarci (come disse Basso: l’enciclopedia di Borges sarà anche infinita, ma nel momento in cui devo servirmene la devo leggere), e il problema è che, come ricorda Eco in Segni, pesci e bottoni, “un segno può essere interpretato solo da altri segni”. In questo senso Paolucci parla di enunciazione come segno interpretante: se c’è del senso da sviscerare, bisogna cercarlo nella pratica locale dell’interpretazione, nei rinvii triadici fra autore, opera e lettore (con le opportune sbarre di grafite), per vedere in che modo la voce di non può più dire nulla (l’enunciatore) è stata modulata dalla voce di chi non può dire altro (l’enunciato). Localmente, ogni volta, anti-platonicamente. Non per individuare una Struttura soggiacente, che più che soggiacente sembra sopra-giacente nel beato Empireo delle Idee Perfette: non siamo più alla triennale, alla logica del terzo escluso non ci crediamo più.

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