…Mi preme come sempre chiarire il discorso sulla soggettività, perché penso sia il punto nodale attorno a cui si intrecciano tutti i nostri problemi e perché (più egoisticamente parlando) mi interessa per la tesi cui sto pensando.
Lei diceva la volta scorsa che siamo comunque costretti a scegliere tra una ipotesi di tipo costruttivista o immanentista del soggetto rispetto al senso. Ebbene, io per farmi una idea coerente della situazione –e anche Paolucci si rifà in realtà ad essa- penso al monadismo di Leibniz. Possiamo ipotizzare che il soggetto sia contemporaneamente attivo e passivo, pur non uscendo dal piano di immanenza. Nel senso che egli è attivo in quanto monade che si può spostare, ma contemporaneamente subisce in maniera riflessa tutti gli spostamenti che nell’universo il suo movimento provoca. E sappiamo anche che l’universo non esiste al di fuori della singola riflessione, al di fuori della sua realizzazione in ogni singola monade, rimane in sé nel suo produrre. Vengono quindi a collassare uno sull’altro i due piani che Sartre distingueva tra l’essere in se e l’essere per se, evitando di invischiarsi nel trascendente. Anche Deleuze quando parla di soggetto come superficie di riflessione, penso si rifaccia a questa idea e a Bergson. Così come quando spiega che gli attributi (le cose nel mondo) sono sia possibili (nella loro unicità) che necessari (se presi come necessità, come l’Uno che ontologicamente si realizza).
Questo si ricollega anche ad un altro discorso su cui vorrei chiederle un parere: quando lei parla di significazione come articolazione del senso, o senso del senso, non posso non pensare ad un passo di –Spinoza e il segno dell’espressione- di Deleuze, in cui parla di espressione dell’espressione. Deleuze dice che c’è una espressione propria, e un’espressione dell’espressione che sarebbe il “modo”, o se vogliamo la “forma” dell’espressione. Bene, la cosa interessante è che questo secondo livello di espressività è produttivo, nel senso che il modo in cui è espressa una cosa va a modificarne la sostanza, innestando poi a mio parere il processo di semiosi illimitata. Io penso che il punto di fragilità o catastrofe non sia altro che questo: quando il senso SI VEDE, SI MOSTRA come ciò che smette di essere prodotto e invece si produce, divenendo significazione in atto, ovvero quando le categorie non generano ma sono generate, quando il continuo emerge dal discontinuo e noi non siamo più a bordo ma sul bordo, non possiamo più decidere.
Come quando siamo in treno e non possiamo capire se sia il nostro mezzo a iniziare a muoversi o quello vicino. Così la monade si muove o è mossa. In questo momento nascono dubbi nei confronti della semiotica generativa, quando servono altri principi per spiegare, che non possono risolversi nemmeno nella categoria
continuo-discontinuo come lei ipotizzava, così come lo
sta fermo-si muove, è alla base della comprensione dello spostamamento dei vagoni, ma nel momento della decisione sul quale si muove è inerme, non mi può dire nulla.
Un principio che, deleuzianamente parlando, “sia in grado di liberarsi dell’ipotesi da cui giunge (un po’ come il rabarbaro), che fondi se stesso e fondi il movimento attraverso cui vi arriviamo; un procedimento che sia sì regressivo, ovvero unisca l’effetto alla causa, ma anche progressivo, che escluda la finzione (ovvero mostri la semisoggettività) e vada da un ente all’altro.”