3 – Intorno ad un’analisi del film Dark Water

4. Dark Water di Nakata Hideo

Applicazione testuale

Per capire come un film riesca a creare il terrore in chi lo guarda è necessario usare lo stesso dispositivo che regola la sua interpretazione immediata. Vedremo come il genere dell’orrore terrorizzi presentificando l’assenza, attualizzando un mondo possibile oltre che dilatando i tempi e le attese dell’enunciatario. E vedremo inoltre perché Dark Water di Nakata Hideo faccia più paura di un qualsiasi altro horror, nel suo sfaldare i piani possibili, costruendo efficacemente lo spettatore modello e ponendolo su un punto di catastrofe da cui non può uscire, nell’impossibilità di comprendere qualcosa senza variare continuamente sistema di riferimento.

Si osserverà dunque Dark Water da due diverse prospettive, notando come entrambe siano costituite da una stratificazione di piani. Da un punto di vista realistico e da uno di genere. Due momenti particolarmente terrificanti della pellicola saranno spiegati con la molteplicità di piani che pongono lo spettatore su una zona di confine instabile da cui non è possibile interpretare ciò che avviene, se non parzialmente.

4.1 Sinossi

Una madre divorziata, Yoshimi, in lotta per mantenere l’affidamento della figlia, Ikuko, si trasferisce in una zona residenziale di Tokyo dove trova lavoro e manda all’asilo la figlia. Da subito una grande macchia di umidità sul soffitto del nuovo appartamento la inquieta. La macchia cresce costantemente, strani passi si sentono dal piano di sopra, in una casa che dovrebbe essere disabitata. Ci viveva una bambina, abbandonata dalla madre e poi scomparsa, Mitsuko. La piccola Ikuko intanto ha problemi all’asilo, dove parla da sola (o con un’altra bambina?) e a volte trova una misteriosa borsa rossa, apparentemente quella che portava Mitsuko il giorno della scomparsa. Sembra che lo spirito di Mitsuko voglia vendicarsi su madre e figlia di esser stata abbandonata. Yoshimi, sempre più confusa, tra il timore di esser presa per pazza perdendo l’affidamento e il terrore dello spirito che vede ovunque, va alla ricerca della piccola scomparsa, scoprendo che la bimba era caduta nella cisterna dell’acqua il giorno in cui, sparita la madre, era tornata a casa dall’asilo da sola. Nel finale, mentre scende dalla cisterna, dei colpi provengono dall’interno come se qualcuno tentasse di uscire. Sconvolta dalla paura si precipita in casa dove trova la figlia, Ikuko, svenuta accanto alla vasca da bagno piena d’acqua scura. La prende in braccio e scappa in ascensore per andarsene. Ma in ascensore vede la vera Ikuko uscire in corridoio e si rende conto che Mitsuko si è sostituita a lei e si trova al suo fianco al posto della figlia. In un drammatico abbraccio lo spirito la chiama mamma, e lei, Yoshimi, non può che accettare la sua nuova condizione, quella di diventar madre dello spirito di una bambina che era stata abbandonata. Dieci anni dopo, Ikuko, tornata per caso in quell’edificio, ormai diroccato, incontra lo spirito della madre e capisce che si è sacrificata per salvarla.

4.2 Realismo terrificante

La particolarità di Dark Water è insita nella sua natura ambivalente. Quello che si autodichiara, e che a tutti gli effetti è, un film dell’orrore nasconde un senso di estremo realismo. Ma non si tratta solo di un film horror particolarmente realistico. Si potrebbe facilmente sostenere che la vicinanza alla realtà renda più semplice l’immedesimazione nei personaggi e dunque il coinvolgimento. Senza dubbio è così ma non solo. Dark Water è una sorta di termine estensivo tra il realismo e il genere horror. Il suo compito è quello di sfaldare le gerarchie tra un realismo terrificante, dove il nostro sistema interpretativo vede una storia reale con alcuni elementi paurosi, e un terrore realistico, dove interpretiamo un film di genere horror con elementi realistici. Come il “fumioso” di Humpty Dumpty in Attraverso lo Specchio di Lewis Carrol è una sintesi disgiuntiva tra fumante furioso e furioso fumante (e non solo tra fumante e furioso che sarebbe un termine complesso definibile con un quadrato semiotico), Dark Water è l’unione di due gerarchie interpretative1. Occupiamoci innanzi tutto del primo sistema, il realismo terrificante, osservando la sovrapposizione di piani di cui è costituito e il modo in cui una storia normale è sfaldata in tempi e versioni attuali e virtuali.

4.2.1 Una bimba attende la madre all’uscita dall’asilo. La madre non arriva.

Si potrebbe riassumere così Dark Water, film che è innanzi tutto la storia di una madre che non riesca ad accettare il suo ruolo e della sindrome di abbandono della figlia. Nakata Hideo sfalda i piani fondendo attuale e virtuale, passato, presente e futuro possibile. Dark Water da un’ottica deleuziana è un’immagine-cristallo, capace di trasmettere una percezione diretta del tempo2. La sensazione d’instabilità provocata dal film è data dal tenere costantemente attivi i passaggi da un piano all’altro.

In Lector in Fabula Eco applica la teoria dei mondi possibili ai testi, sostenendo che le aspettative create nel lettore per l’attualizzazione di uno o più mondi possibili regolano l’interpretazione creando effetti di tensione o di sorpresa nel realizzare o non realizzare i mondi che il lettore si aspetta3. Dark Water è una sorta di punto di accessibilità tra diversi mondi che tiene aperte tutte le potenzialità, ponendo lo spettatore in una situazione d’inquietudine data dall’impossibilità di prevedere.

Ma torniamo al periodo che titola questo paragrafo: “una bimba attende la madre all’uscita dall’asilo. La madre non arriva.” La bimba è Ikuko e la madre Yoshimi. Nel film vedremo Ikuko aspettare fuori dell’asilo; Yoshimi è in ritardo e a portarla a casa sarà il padre. Ma Hideo dice di più. La stessa cosa accadde a Yoshimi da bambina. La madre la abbandonò e non venne a prenderla. E, ancora, a Mitsuko, la bimba scomparsa il cui spirito vaga per l’edificio. La madre di Mitsuko non viene a prenderla, lei sotto la pioggia e con l’impermeabile giallo torna a casa da sola, sale sul tetto, vede il serbatoio dell’acqua aperto, ci precipita dentro. In questo contesto non è necessario che la madre abbandoni o no la figlia. E’ accaduto nel caso di Mitusko e di Yoshimi: lo dice Hideo per voce di personaggi maschili, che interpretano il ruolo del padre a sanzionare il comportamento della madre. Per la bambina l’esser dimenticata all’asilo dalla madre consiste nell’abbandono, poco importa se questo sia concreto o solo virtuale. Il risultato sarebbe lo stesso per Mitsuko, che comunque morirebbe nella cisterna. Ikuko vive invece su un punto di passaggio, tra l’abbandono e il non abbandono: viene dimenticata all’asilo, è accompagnata dal padre, ma continua a vivere con la madre, Yoshimi. I genitori sono separati e Yoshimi non riesce a gestire questa situazione. Alla fine Yoshimi abbandonerà Ikuko, perché d’altronde la storia è sempre la stessa, e la bimba verrà affidata al padre. Quello che il film descrive è dunque lo stato di frontiera, il passaggio dalla presenza della madre all’abbandono. Per questo è una storia terrificante, la più terrificante possibile.

Mitusko e Ikuko sono d’altra parte la stessa bambina. Mitusko è la proiezione, l’incubo, di Yoshimi, il suo mondo possibile nel caso in cui perdesse la figlia: Wnc (ovvero il mondo possibile del personaggio nella definizione di Eco). Non è un caso che Mitusko sia un essere terrificante, l’incubo peggiore per una madre è quello di perdere la propria figlia. Ikuko è lo stato di transizione che tende al perdersi, all’abbandono: gioca con Mitusko, parla con lei, usa la sua borsa rossa e Mitusko, l’incubo virtuale di un possibile abbandono, la chiama a sé. Yoshimi fa di tutto per impedirlo, per non perdere la bambina e mantenere l’affidamento, per allontanarla da Mitusko. Perché, d’altronde, tutto quell’astio, fin dall’inizio, nei confronti della borsa rossa? Atteggiamento che provoca sconcerto persino nel portinaio. Perché Yoshimi vuole impedire a Ikuko di andarsene, ma, cosa tremenda, non ci riesce. E la borsa rossa è un punto di contatto con l’altro mondo, con lo smarrimento della figlia.

Guardando indietro vediamo invece Yoshimi da piccola, abbandonata a sua volta dalla madre. Yoshimi tenta di impedire che la stessa cosa accada alla figlia, eppure deve impedire a se stessa di abbandonarla. E non può farlo perché il fatto, appunto, è già accaduto. Dark Water mostra una sorta di presente perpetuo, di compresenza dei piani. Perché Mitsuko e Ikuko sono la stessa bambina, ma la madre resterà con Mitsuko, si sacrifica. Per impedire a Ikuko di entrare in contatto con lo spirito maligno, diventa la madre che Mitsuko aveva perso. Ma Mitsuko è la presentificazione virtuale di un incubo. Accettando quel mondo Yoshimi abbandona Ikuko a se stessa. Il peggiore degli errori Yoshimi lo fa nel finale, correndo sul tetto a cercare Mitusko. In quel momento lascia la figlia da sola in casa e quando torna Ikuko non sarà più se stessa. La vera Ikuko, d’altra parte, uscirà dalla porta della casa dove viveva Mitsuko. I piani si confondono. Il ruolo tematico di Mitsuko diventa quello di Ikuko e viceversa4. Yoshimi sbaglia perché nel finale non sceglie. Non sceglie di essere madre, non riesce ad accettare il suo ruolo. Il finale è così insopportabile alla visione, perché Yoshimi non muore e non vive, accade la peggiore delle cose. Yoshimi è costretta a vivere su un punto di frontiera.

Yoshimi va dunque incontro al suo incubo, a una nuova figlia, Mitsuko, che è devoltificata, perché privata di espressione e dunque della più basilare affezione. I capelli neri nascondono il volto perché questo è un’immagine-affezione, segno iconico che rinvia a se stesso secondo Deleuze, primità peirciana5. E’ la figlia privata degli affetti, o dell’amore materno. La bimba è dunque sfaldata su diversi piani sovrapposti, strutture temporali e mondi possibili. Mitsuko è Ikuko privata della sua identità, una figlia senza madre né padre, abbandonata e dunque priva dei termini relazionali che la definiscono. Il fatto di non riuscire a scegliere, ad accettare per Ikuko il ruolo di figlia e per se stessa quello di madre, porterà Yoshimi a vivere sulla frontiera, a restare nell’ascensore e a dissolversi nell’acqua.

Dark Water è una storia circolare, dove una bambina lasciata dalla madre costruisce il mondo ipotetico in cui avviene l’abbandono per darne una giustificazione. In questo mondo ipotetico la madre, in cui ovviamente s’immedesima la bambina stessa, si costruisce a sua volta un mondo-incubo in cui perde la figlia. Paradossalmente per impedire che questo mondo-incubo si avvicini alla figlia stessa, combattuta dal timore di perdere la propria identità occupando il suo ruolo materno, è costretta a entrare nell’incubo, abbandonandola. Ma visto in quest’ottica, che è totalmente illogica, ma forse stranamente vicina all’oscuro labirinto della mente, l’abbandono è un sacrificio. E il sacrificio è accettabile perché sanziona l’amore della madre.

4.2.2 L’ascensore

Come a sottolineare la specifica funzione del termine, quella di connettere più piani, l’ascensore è un punto di frontiera. Consente la messa in contatto tra il sesto e il settimo piano, tra l’abitazione di Ikuko e Yoshimi e quella di Mitsuko. Non è un caso che nel finale l’ascensore s’identifichi con l’acqua, il continuum per eccellenza. E’ una citazione da Shining, di Stanley Kubrick, il momento in cui le porte si aprono e invece di Yoshimi e Mitsuko solo una cascata d’acqua scura esce travolgendo Ikuko in lacrime. E l’acqua, l’isotopia fondamentale del film, è onnipresente con allagamenti, umidità e pioggia. Tutto dovuto al fatto che Mitsuko è annegata nel serbatoio sul tetto dell’edificio. La macchia d’umidità sul soffitto altro non è se non un mettere in connessioni i due piani diversi. Le gocce che attraversano il pavimento sono l’immagine del collasso dei mondi in direzione di un continuum indeterminato, verso tutte le direzioni possibili.

L’ascensore, d’altra parte, è il primo luogo in cui compare Mitsuko, sotto forma di fantasma. Qui i piani entrano in contatto e può accadere di tutto. Ancora prima di abitare la casa nuova, accompagnate da un agente immobiliare, Yoshimi e Ikuko salgono sull’ascensore. Ikuko stringe la mano alla mamma. Arrivati al sesto piano le porte si aprono e Ikuko corre fuori. Ma Yoshimi sente ancora la sua mano e non capisce chi gliela stia dando. Fin dall’inizio era Mitsuko a toccarla così come era sua la pozza d’acqua sul pavimento. Proprio sul punto di frontiera, dunque, Ikuko si sdoppia; contemporaneamente corre nel corridoio e resta nell’ascensore. Sono i primi sintomi di uno sfaldamento.

Nelle telecamere a circuito chiuso che il portinaio costantemente osserva, inoltre, si vede spesso la nuca di una bambina che non è Ikuko accanto a Yoshimi nell’ascensore. Ma il portinaio non vede la differenza tra Mitsuko e Ikuko e non si turba. Per lui, là dentro c’è la stessa bambina.

Nell’ascensore infine la storia giunge al termine. Mitsuko e Ikuko s’invertono, inspiegabilmente a una visione superficiale, i ruoli. Sul punto di frontiera basta un minimo perturbamento per cadere da una parte o dall’altra, perché Ikuko diventi Mitsuko. E Yoshimi è costretta ad abbracciarla, a urlare a Ikuko di non avvicinarsi, di non varcare la porta. Restando nell’ascensore Yoshimi accetta di vivere su un punto di frontiera, frontiera tra diversi mondi e tra la vita e la morte.

4.3 Terrore realistico

Non si può parlare di terrore senza chiamare in causa la morte6. La morte è il carattere fondamentale di qualsiasi film horror: l’incursione nel quotidiano dell’al di là è ciò che l’horror mette in scena. Si parte sempre da una situazione ordinaria per poi rivoltarla su se stessa attraverso la fusione col piano della morte o della non-vita. La paura è d’altronde sempre paura di morire, ma più di questo, è paura che il mondo altro, separato e trascendentale invada la nostra stabile quotidianità. E’ paura per la crisi delle certezze che la presenza di un altro mondo porterebbe.

Il genere costituisce “un orizzonte d’attesa nel testo”7. Si tratta di un sistema che regola l’interpretazione dello spettatore, attualizzando alcuni mondi possibili. Le aspettative, il buio, l’ignoto nell’horror sono potenziali portatori di spaventi. Fondamento della paura nel film dell’orrore è proprio la consapevolezza che si ha di fronte un film dell’orrore. Situazioni assolutamente normali assumono quindi aspetti inquietanti e anche solo voltare l’angolo in casa propria diventa terrorizzante sapendo che qualcuno o qualcosa potrebbe manifestarsi da un momento all’altro. Il problema non è il se ma il quando e il come. Dilatare i tempi aumenta dunque la tensione frustrando l’attesa dello spettatore. Queste semplici ed efficaci tecniche sono ben presenti in Dark Water.

Occupiamoci più specificamente di un sottogenere dell’horror, l’horror fantastico, quello in cui non sono normali assassini a inseguire i personaggi ma fantasmi. Il fantasma è per sua natura la presentificazione di un’assenza, è l’occupante senza posto che entra nel nostro mondo pur non facendone parte. La sua presenza non può esser interpretata perché non appartiene alle leggi che regolano il nostro sistema interpretativo e questo rende un qualsiasi contatto con esso terrificante. Ma il fantasma, quando entra sul piano della vita, lo fa perché inquieto, perché non ha trovato la pace che gli consente di andarsene una volta per tutte e qualcosa ancora lo lega al mondo terreno. Gli spiriti nei film giapponesi vogliono che qualcuno li aiuti a risolvere una questione irrisolta e le tremende maledizioni non sono che una manifestazione di questa inquietudine. Nella propria prospettiva dunque il fantasma non è cattivo, ma neanche buono, non è una cosa né l’altra: il fantasma appunto non è. La grandezza di Nakata Hideo è quella di far credere tutto questo allo spettatore e dargli consapevolezza che comunque c’è del bene sotto ogni cosa, per poi scuoterlo con delle inaspettate crudeltà. Tanto che almeno metà svolgimento di quel The Ring, che l’ha reso famoso, è un tentativo totalmente fuori strada di annullare una maledizione, il che ci narra sì le vicende legate allo spirito di Sadako, ma senza che nulla si risolva in termini narrativi. La scoperta finale è che la maledizione resta in atto come una catena e per interromperla qualcuno deve essere sacrificato (il nonno nel caso del primo episodio). Che i propri resti siano portati fuori dal pozzo evidentemente non interessa molto allo spirito di Sadako che uccide dietro una ferrea quanto immotivata e poco fantasmagorica logica: quella della “catena di Sant’Antonio”, chi vede il video deve mostrarlo a qualcun altro entro una settimana, pena la morte. I test spam che ogni giorno invadono la casella di posta elettronica di qualsiasi spettatore assumono una dimensione mortifera. La loro semplice logica viene applicata a un mondo altro. L’innovazione che i film giapponesi portano al genere è una fusione con i caratteri attuali della società e con una filosofia che deriva dal mito e dagli spiriti orientali8.

The Ring è dunque uno squillo del telefono, se ascoltiamo il genere horror, l’arrivo del terrore atteso. Ma è anche, sotto un’altra prospettiva o base di riferimento, l’anello. Anello che solo la morte può spezzare.

Portato per mano fin nel profondo del genere lo spettatore è costretto a uscirne per usare un carattere del reale estremamente attuale. Se un qualsiasi Nightmare vuole uccidere un gruppo di ragazzi per vendetta, perchè la sua anima possa riposare in pace una volta vendicatane la morte, Sadako uccide sostanzialmente a caso, forse sì per vendetta ma contro il mondo intero. Mitsuko vuole una madre, ma il motivo per cui in almeno due casi si salta sulla sedia sono proprio i comportamenti non giustificabili da quest’ottica.

Se l’horror fonda i propri meccanismi sull’impostazione di criteri interpretativi basati sull’appartenenza al genere, i fantasmi di Hideo sono comprensibili solo con due prospettive diverse. E’ l’impossibilità di usarle entrambe in contemporanea che ce li rende sfuggenti e insopportabili. Mitsuko è Ikuko e Yoshimi ma è al tempo stesso un fantasma, è il mondo della morte che vuole sovrapporsi a quello della vita.

4.3.1 Tre colpi dall’interno della cisterna

Yoshimi abbandona Ikuko. Corre sul tetto e sale la scala a pioli della cisterna, vuole capire cos’è accaduto a Mitsuko. Legge la data dell’ultima pulitura del serbatoio: 14 settembre. Lo stesso giorno della scomparsa di Mitsuko. Le immagini della bambina che sale sulla scaletta e cade nell’acqua scorrono nella mente di Yoshimi. Capisce che Mitsuko è rimasta là dentro e in quel momento il mondo possibile del personaggio coincide con quello dello spettatore, Wnc=Wr9. Sappiamo che dentro la cisterna potrebbe esserci qualcosa, forse lo spirito di Mitsuko. Alcuni deboli colpetti si percepiscono dall’interno. Nello spettatore cresce l’aspettativa per qualcosa d’inquietante, ma in fondo si sa che le intenzioni sono sempre quelle di una bimba che ha perso la madre. Proprio in quel momento Mitsuko batte tre colpi sulla cisterna, come tentando di uscire, e il metallo si modella sui suoi pugni. Sintomo di una potenza e una cattiveria sconosciuta. Il terrore suscitato da questa inaspettata brutalità precipita lo spettatore su un altro piano. Da qui in poi ci sarà la sensazione che qualsiasi cosa potrebbe accadere. La narrazione non fornisce alcuna informazione sul seguito; si è in balia degli eventi. La paura diventa paura dell’ignoto.

4.3.2 Sul punto di frontiera

Per capire qualcosa, dunque, lo spettatore deve far riferimento a due sistemi interpretativi non compatibili. Quando Yoshimi prende in braccio Ikuko e scappa nell’ascensore un’infinità di mondi possibili sono attualizzati. E, infatti, accadrà qualcosa che non dovrebbe poter accadere: Mitsuko prenderà il posto di Ikuko e viceversa. A una visione superficiale questo scambio sembrerebbe giustificato da qualche oscura capacità sovrannaturale dello spirito. Ma sarebbe una spiegazione approssimativa che non rende giustizia alla qualità dell’opera. Un criterio di genere di verosimiglianza narrativa non è sufficiente10. La prova di questo è la sensazione d’incomprensione che si prova alla sostituzione delle bambine.

In un contesto di tensione esasperata, nell’ascensore con la presunta figlia, Yoshimi vedrà la porta dell’appartamento aprirsi. L’ascensore non si muove, l’acqua ha mandato in cortocircuito il pannello di controllo. E’ interessante che Yoshimi non pensi neppure di correre giù per le scale. In questo momento l’attesa dello spettatore è per un qualcosa di terribile o, semplicemente, per Mitsuko pronta a uscire dalla porta. Inaspettatamente vedremo apparire Ikuko, fradicia e con gli occhi chiusi che chiama la madre. Il massimo della tensione viene raggiunto dall’adesione del sapere del personaggio Yoshimi con quello dello spettatore. Yoshimi guarda Ikuko e fa per voltarsi alle sua sinistra. In quel momento capiamo insieme a lei che nell’ascensore non c’è Ikuko ma Mitsuko, che la sostituzione è avvenuta e che, questa volta, sarà impossibile scappare. Impossibile per Yoshimi ma anche per lo spettatore che guarda. Mitsuko rivelerà il suo vero volto, quello di un corpo semi-putrefatto, e abbraccerà Yoshimi. Di nuovo, siamo costretti a usare un altro riferimento per comprendere ciò che avviene. Yoshimi dirà, “sono io la tua nuova madre”. Ma cosa significa abbracciare e accarezzare un cadavere? Yoshimi diventa la madre di uno spirito? Lo spirito è morto, Ikuko è viva, Yoshimi dove vivrà? Nella vita o nella morte? E questo abbraccio è l’abbandono di Ikuko o il sacrificio per dare pace a Mitsuko? E le due bambine non erano la stessa?

Siamo sul punto di frontiera dove niente è comprensibile e tutti i piani si fondono l’uno sull’altro. La vita e la morte, Mitsuko, Ikuko e Yoshimi. Dovremmo usare contemporaneamente una base di riferimento reale, riguardante la storia di una madre, e quella di un film dell’orrore dove un fantasma cerca la pace. C’è un senso d’insoddisfazione in questa penultima sequenza, perché lo spettatore può con certezza dire di non aver realmente capito cos’è accaduto. Dark Water, fino a questo punto, ci lascia insoddisfatti; qualcosa si è compreso, ma non tutto, non globalmente.

4.4 (In)Conclusione

Ogni spazio liscio genera una nuova striatura. Da una situazione sfaldata in tutte le direzioni possibili deriva un nuovo taglio locale11. Tornata in quella casa, dieci anni dopo, quando i ricordi di ciò che era avvenuto sono ormai sbiaditi nella memoria, Ikuko ritrova il suo vecchio appartamento, perfettamente conservato pur trovandosi in un edificio ormai diroccato. Ikuko entra in contatto col suo mondo possibile nel caso in cui non fosse stata abbandonata. Parla con la madre e sente alle sue spalle la presenza disturbante di Mitsuko, o di se stessa, diversa come sarebbe stata vivendo là per tutto quel tempo. Il nuovo taglio è un nuovo punto di vista sulla situazione, una nuova base di riferimento. L’abbandono aveva generato un incubo, ma grazie ad esso Ikuko crea una nuova prospettiva valoriale sulla vicenda. La madre l’ha sì abbandonata, ma l’ha fatto per proteggerla. E sono queste le parole, che sullo schermo nero che darà spazio ai titoli di coda, chiudono il film.

D’altra parte, se Hideo Nakata sfalda le gerarchie che il genere horror stabilisce tra la realtà e la finzione orrorifica, è proprio grazie ai suoi film che si è prodotto un nuovo genere. Perché pellicole come L’esorcista o Rosemary’s baby quando uscirono fecero tremare gli spettatori e adesso non riescono altrettanto bene in quell’opera terrorizzante? Perchè, allo stesso modo, il meccanismo horror creava diversi sguardi incompatibili su una vicenda, ma la sua standardizzazione nel tempo ha generato uno sguardo unico che permette di comprendere ogni cosa. Lo j-horror sta dunque concependo una nuova base di riferimento per l’interpretazione delle sue opere, un nuovo taglio interpretativo capace di accrescere le conoscenze enciclopediche dello spettatore così da permettergli d’interpretare i prossimi modelli dello stesso genere. I piani tendono ad appiattirsi su uno solo risultante, così come i sistemi interpretativi tendono a crearne uno stabile. La credenza si fissa su un abito. Sarà solo una nuova lisciatura dello spazio, uno sfaldamento delle gerarchie a cui il nuovo sistema ha dato origine, che riporterà lo spettatore su un punto di frontiera instabile, pronto a generare un’altra striatura.

1Deleuze, G. (1969) Logica del senso pp. 45-49

2Deleuze, G. (1985) L’immagine-tempo

3Vedi Eco, U. (1979) “Strutture di mondi” in Lector in Fabula pp. 122-173

4Sui ruoli tematici e figurativi degli attori vedi Gremias, A.J. (1984) “Gli attanti, gli attori e le figure” in Del Senso 2, pp. 45-63

5Deleuze, G. (1983) L’immagine-movimento

6Aimeri, L. & Frasca, G. (2002) Manuale dei generi cinematografici

7Sui generi: Todorov, T. (1993) L’origine dei generi

8A Nakata Hideo hanno fatto seguito molti altri tra cui Kiyoshi Kurosawa e Miike Takashi. Sullo j-horror, il nuovo horror giapponese vedi (su Wikipedia): en.wikipedia.org/wiki/J-Horror

9Vedi Eco, U. (1979) Lector in Fabula, pp. 154-156

10Sulla verosimiglianza nei testi letterari vedi Mizzau, M. (2004) “A proposito di (in)verosimiglianza narrativa”

11Deleuze, G. & Guattari, F. (1980) Il liscio e lo striato

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