Soggetto dell’interpretazione
Ogni discussione sulla soggettività in semiotica dovrebbe partire dal non disambiguare alcune nozioni di soggetto. Parliamo di soggetto epistemologico, per indicare il soggetto dell’analisi, soggetto dell’enunciazione e soggetto dell’enunciato (nell’enunciato) (vedi Marsciani, introduzione alla Semiotica delle passioni1). Se la prospettiva semiotica s’interessa dei punti di vista interpretativi, il soggetto dell’enunciazione sarà un soggetto che mira all’emersione del senso. L’enunciazione stessa diviene il processo di manifestazione del senso nell’interpretazione, distanziandosi sempre più dall’idea di produzione empirica dell’enunciato che resta fuori dagli interessi semiotici. La base di ogni discussione dovrebbe dunque essere la presa di coscienza che il soggetto dell’enunciazione è un interprete per evitare una deriva ontologica in cui si cerchino le strutture soggiacenti al segno e alla narratività. Anche il percorso generativo sarebbe dunque un percorso d’interpretazione.
Deittici
Come viene vista l’enunciazione nella teoria generativa? Essenzialmente sotto due aspetti2. Un primo di tipo linguistico: riferendosi a Benveniste, si parla di qualcosa che si trova tra due poli. Tra un io e un tu, i deittici. L’enuciazione è dunque l’istanza che rende possibile lo scambio comunicativo e l’enunciato è il luogo in cui si vengono a trovare i simulacri dei due poli assenti.
Oltre a questa concezione linguistica Greimas parla di enunciazione come d’istanza di passaggio tra strutture virtuali e strutture attuali. Di questa seconda accezione parleremo in seguito.
Qui vorrei solo soffermarmi sulla questione specifica dei deittici, osservando come questa non possa diventare il fulcro di ogni indagine semiotica, né la base di una teoria che abbia nell’analisi testuale il suo obiettivo primario. Gli esempi migliori vengono dal campo che mi è più vicino, il cinema. Applicando strenuamente e anche con grande acume la teoria dei deittici al cinema, il più grande semiotico del cinema italiano, Casetti3 costruisce un intero sistema di interpretazione usando quattro categorie di “sguardo cinematografico”. Il suo obiettivo è quello di ritrovare le due posizioni di enunciatore ed enunciatario, ma esplicitamente, nel caso di Casetti, di spettatore, quasi empirico si direbbe, all’interno del testo. Osservare dunque il testo come un messaggio stretto tra i due poli di emittente e ricevente, messaggio che incarna il suo enunciatore ma anche il suo enunciatario che manifesta. Così nascono le nozioni di soggettiva, oggettiva, oggettiva irreale e interpellazione (lo sguardo in macchina che chiama direttamente in causa l’enunciatario).
Una interessante critica a questa concezione di enunciazione applicata al cinema la fa Metz ne L’enunciaizone impersonale4. Risulta abbastanza evidente che il mezzo cinematografico ben si distingue dalla comunicazione orale dove la coppia deittica riveste un ruolo ben più importante (per non parlare di quella differanza dell’enunciato dal voler-dire dell’enunciante che sempre con questo tipo di analisi anche nel caso della comunicazione orale sarebbe oscurata). Ma lo stesso modello comunicativo standard su cui si basa Benveniste, quello ripreso da Jakobson di Emittente-Messaggio-Ricevente è stato superato dall’idea di enciclopedia di Eco o di semiosfera di Lotman. Autore modello e lettore modello sarebbero strategie testuali interne al testo, categorie interpretative più che rinvii a un fuori del testo.
Il punto è che nel film non c’è alcun enunciatore empirico a cui si tenda a rinviare uno sguardo. Allo stesso tempo il film rinvia piuttosto a se stesso, attraverso le cosiddette marche enunciative, o discorsi metafilmici. C’è uno sbilanciamento messaggio-ricevente secondo Metz, dove si dovrebbero osservare piuttosto le pratiche di ricezione. Ma l’idea di Metz di ripiegamento del testo su se stesso si supera attraverso le stesso Metz: anche i casi di enunciazione enunciata sono finzioni, che non riniviano mai a un’enunciazione originale. D’altronde lo stesso Greimas afferma nel Dizionario che l’enunciazione enunciata totale è impossibile. Si tratta dunque di casi, interessanti, spiegabili anche con il famoso straniamento brechtiano ma su cui non si può costruire un’intera teoria di analisi semiotica. Il film, ma questa concezione è chiaramente estendibile a tutti i tipi di significazione, non è un banale messaggio stretto tra i due poli di emittente e ricevente che contiene come posti vuoti al proprio interno.
Semisoggettiva
Per capire il vero sguardo cinematografico e il modo di essere del film si deve ricorrere alla fertile idea di semisoggettività, così come l’aveva definita Mitry nel cinema, e Pasolini in letteratura secondo l’idea di discorso libero indiretto, poi ripresa da Deleuze (Deleuze arriverà a definire il film come un percetto, una percezione al quadrato, percezione di una percezione)5. La macchina da presa è infatti sempre con lo spettatore. Il suo sguardo non è mai disambiguato, mai oggettivo, c’è sempre una messa in scena che decreta un punto di vista, certo, un’aspettualizzazione se vogliamo, ma costitutiva dell’enunciato. In quel punto, in quell’essere insieme di enunciatore ed enunciatario svaniscono i poli deittici e resta solo il film, svanisce la differenza tra soggetto dell’enunciazione e soggetto epistemologico, e questi vedono con gli stessi occhi. Quelli descritti da Casetti sono dunque casi di relazione pronominale che possono naturalmente esserci ma che non sono costitutivi dell’essere del film6.
L’enunciazione è dunque in questo sguardo, allo stesso tempo enunciante e interpretante, è un punto di vista, una prospettiva o mettendola peircianamente un segno interpretante, dove un enunciato è detto sotto un certo rispetto. E’ dunque quel certo rispetto a costituire il concatenamento che mette in connessione due piani (uso qui termini deleuziani perché è nel concatenamento tra i piani che emergono gli effetti di senso, o effetti di superficie7).
Per questo genere di teoria del cinema tornano utili alcuni film che mettono ben in mostra un tipo di narratività non processuale ma rizomatica come L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais che mi è capitato di analizzare anche seguendo i bei pezzi che Deleuze vi dedica8.
Parentesi su L’anno scorso a Marienbad
Giusto per fare qualche brevissimo accenno, in Marienbad gli stessi enunciati filmici, due persone che si incontrano, sono ripetuti in diversi mondi possibili, diversi spazi e tempi, attuali e virtuali. Le parole pronunciate dalle persone vagano nel vuoto, vengono costantemente ripetute da altre persone in altri contesti. Non è più chiaro il tempo della voce fuori campo o quello della diegesi, la memoria e la realtà si confondono, la finzione diventa realtà e non è più possibile ricondurre il tutto a un centro o polo fisso di pertinentizzazione. L’idea migliore per descrivere questo stato di cose è un insieme di spazi di Riemann, dove ogni spazio riguarda una prospettiva diversa (che può essere temporale o spaziale o dell’enunciazione). Prendendola da una prospettiva temporale vedremo uno sfaldarsi dell’enunciato in diversi mondi possibili che riguardano diversi momenti in cui la cosa accade oppure da un punto di vista spaziale, rivedremo la stessa scena in diversi luoghi. In questo che definirei uno sfaldamento, dove non ci sono diverse prospettive su una stessa vicenda ma diverse vicende in diversi mondi, si apre una concezione di narrazione non processuale. A mancare è proprio un polo di pertinentizzazione come può essere un soggetto dell’enunciazione inteso greimasianamente, come originario io-qui-ora cui tutto ricondurre.
1Marsciani, F. & Pezzini, I. Premessa a Greimas & Fontanile, Semiotica delle Passioni, Milano: Bompiani, p. XLIV
2Greimas A.J. & Courtès, Dizionario ragionato di teoria del linguaggio
3Casetti, F. Dentro lo sguardo, Milano: Bompiani e Analisi del film, Milano: Bompiani
4Metz, C. L’enunciazione impersonale, Napoli: Edizioni scientifiche italiane, 1993
5Deleuze, G. L’immagine movimento, Milano: Ubu Libri, 1985
6Vedi anche Pescatore, G. Il narrativo e il sensibile, Bologna: Hybris, 2003
7Deleuze, G. Logica del senso, Milano: Feltrinelli
8Deleuze, G. L’immagine tempo, Milano: Ubu Libri, 1989, pp.113-142