2 – Ancora sul soggetto trascendentale, più estesamente

Il problema di un soggetto trascendentale sembrerebbe cassato da una semiotica, quella generativa, che riconosce il primato fenomenico della discorsività (se qualcosa si da, si da a mezzo di discorso), stando al quale il soggetto appare al più o come il riflesso strategico di posizionamenti pragmatici (enunciazione) o come uno dei nodi figurativizzabili della sintassi attanziale (enunciato).

In realtà, come spesso accade in questo strano mondo della semiotica in cui uscire dalla porta e rientrare dalla finestra sembra essere lo sport nazionale, il soggetto trascendentale si riaffaccia e chiede udienza attraverso il pertugio epistemologico. A ben vedere, infatti, il programma greimasiano mirante al senso del senso si serve del percorso generativo come di una camera iperbarica in cui l’emersione del discontinuo possa avvenire in condizioni sterili. Evoluzione peraltro curiosa del pensiero strutturalista, se pensiamo ai termini in cui Saussure parlava della lingua:

essa corre tra gli uomini, è sociale. Se faccio astrazione da questa condizione, se mi diverto per esempio a scrivere una lingua chiuso nel mio studio, niente di quel che vado a dire su “la lingua” sarà vero. (scritti inediti, p. 107)

 In ogni caso il percorso generativo tiene grazie al quadrato semiotico, le cui articolazioni sono primariamente discriminate a livello timico, in virtù cioè di un’intenzione trascendentale.

È esattamente questo che ci convince a prendere sul serio l’ipotesi che nel paradigma generativo possa farsi strada, ancorché nel silenzio della bibliografia imputata (e imputabile), una preoccupazione coscienziale o proto-coscienziale.

Essa permea la definizione stessa di assiologia e, da lì, si trasmette a tutti i successivi oggetti teorici della teoria, come una stringa di codice virale che passa di file in file. Questa trasmissione è resa possibile dal fatto che la semiotica di stampo strutturale e generativo, come dicono Greimas e Fontanille (1991), è deduttiva “quanto alla forma che assume il dispiegamento del suo percorso”, sicché determinate assunzioni – più o meno implicite – a livello profondo si riverberano nella conversione prima e nella convocazione poi. Non è quindi un caso ritrovare il tarlo del soggetto trascendentale nelle modalità, dove l’affermazione o la negazione di un qualche quadro competenziale non possono nemmeno essere imbastite se non a patto di una concezione che riconosce gli oggetti del mondo solo in termini di accessibilità, disponibilità, possesso o mancanza. Ecco i prodromi preoccupanti di una semiotica del consumo, che inevitabilmente diventa consumo della semiotica, semiotica consunta, ridotta a vettori d’acquisizione. Il mondo si incurva attorno a un centro d’indeterminazione (cfr. Deleuze ne L’immagine-movimento), diventa orizzonte e periferia e non ha altra esistenza semiotica al di fuori delle pregnanze a cui è eletto dai programmi di realizzazione del soggetto. Il problema non è alieno all’espistemologia rovesciata di cui parla Basso, per cui si passerebbe da un dominio ontologico in cui la coscienza viene prodotta a un dominio semiotico in cui è la coscienza (o il corpo attante) a produrre pertinenze, prima nell’ordine del saliente e poi del pregnante, in grado di conferire significatività al mondo. Ne L’immagine-movimento Deleuze evitava questo rovesciamento epistemologico perché i due momenti della coscienza, prodotta e produttrice, anziché afferire a due diversi domini erano sussunti nel dispiegarsi d’un unico piano d’immanenza (ripreso da Bergson), tanto che alcuni autori di cinema potevano anche ripercorre all’indietro il processo di discretizzazione delle diverse immagini (Film di Beckett) senza che il ritorno allo “sciabordio universale” segnasse lo sconfinamento in una zona priva di interesse semiotico.

Sotto un altro profilo, è curioso che proprio l’ultimo esito della ricerca generativa approdi con Zielberberg e, più compiutamente, con Fontanille, a una svolta teoria che finalmente esplicita questo ordine di preoccupazioni trascendentali e coscienziali. Quanto verrà poi smussato in Figure del Corpo (2004), è invece lampante in Semiotica delle Passioni (1991), dove le passioni conoscono una nuova sistemazione, non sopraggiungendo più soltanto al carico modale degli attanti, bensì descrivendo l’ambiente stesso delle precondizioni della significazione. Ne risulta una singolare situazione, ben illustrata nella premessa di Marsciani e Pezzini, in cui coabitano elementi di continuità, ascrivibili all’andamento tensivo con cui si dispiega l’attrazione universale degli enti, e elementi di discontinuità, ascrivibili alla foria che asimmetrizza il rapporto soggetto-mondo indicando al primo l’operabilità del secondo. Si legge appunto nella premessa:

assistiamo a una sorta di drammatizzazione della prima emergenza del senso, dove la patemizzazione funziona come polarizzazione dell’energia. Un proto-attante, un quasi-soggetto, dotato di un innesco di intenzionalità, la protensività, si polarizza verso un quasi-oggetto, dotato dal canto suo di una potenzialità, un’ombra di valore… (p.38)

Poco prima si legge che la foria, cui spetta appunto di “dirigere le tensioni”, “corrisponde a un concetto vitalista-organicista proprio delle scienze biologiche”. Ci permettiamo di precisare che il concetto di foria, opportunamente tradotto nell’idioma di riferimento, è proprio di un particolare approccio interno alle scienze biologiche, quello sistemico, e ne sottolinea lo specifico in opposizione a un altro approccio, quello darwiniano-evoluzionista. Mentre in quest’ultimo è l’ambiente a dettare le regole del gioco, imponendo alle specie i parametri da soddisfare per sopravvivere, nel primo approccio è il sistema vivente che dinanzi agli stimoli ambientali opera una selezione filogenetica che preservi i propri cicli ontogenetici. Questo meccanismo è studiato, fra gli altri, da Maturana e Varela e concerne un’informazione che non è mai ambientale ma è sempre sistemica, perché coincide in ogni momento con una particolare “compensazione strutturale” che adegua lo stimolo ambientale a una funzione di organizzazione interna cui tutto rimanda. Il debito che Fontanille non paga è esattamente questo, perché le sue “soglie di inerzia”, ossia la resistenze in cui si manifesta la “vicenda basilare della passività” – necessaria a condensare un minimum attanziale – altro non sono che la traduzione in altra forma del meccanismo della “compensazione strutturale”, che è nozione di pertinenza strettamente biologica. Ma al di là dei travasi interdisciplinari, più o meno leciti perché legati all’imporsi di una questione ontologica che fa problema dentro la semiotica, resta il fatto che l’importanza fondante assegnata alla foria tradisce alle proprie spalle il principio dell’intenzione fenomenologica e, poco più in là, la solita coscienza trascendentale.

Figure del corpo, opera cui appartengono le questioni relative alle “soglie di inerzia”, segna tuttavia un mutato atteggiamento epistemologico. Vi scompare il riferimento a una nebulosa primordiale e pre-semiotica, che invece circolava in Semiotica delle Passioni, e si fa consapevole la necessità di riferirsi a una enunciazione in atto che sia in grado di porre la teoria semiotica al riparo da scivoloni trascendentalisti. In questa direzione va intesa la costituzione semiotica del corpo. Il corpo, infatti, prende posizione nel mondo affacciandosi a un tempo su un dominio interno e su uno esterno e fondando di volta in volta su questo dualismo la correlazione tra un’espressione e un contenuto. È il corpo a rendere conto della timia a livello di manifestazione, operandone e analizzandone le atmosfere:

(esso, il corpo) converte in figure semiotiche gli stati d’animo diffusi nel mondo percepito. E questa analisi viene condotta dal corpo attraverso un adattamento che produce delle equivalenze figurative. (p.212)

Come si vede, la figuratività – su cui (non senza problemi) collassa il corpo-attante – schiaccia uno sull’altro due livelli del percorso generativo e in modo nuovo ribadisce quello che sopra abbiamo definito primato fenomenico della discorsività, per cui se di soggetto si parla sarà senz’altro un soggetto già inscritto nelle pratiche discorsive. Due, tuttavia, i problemi.

  1. La figura è solo una faccia dello statuto semiotico del corpo, di cui l’altra faccia, rivendicata da Fontanille come decisiva, è quella del corpo come substrato della semiosi, la quale rinvia pur sempre a un soggetto ponente.

  2. La produzione di equivalenze figurative è sì il modo con cui il corpo manifesta le questioni timiche (che in Semiotica delle passioni restavano prerogativa di uno spazio teorico immaginario e, in definitiva, di una dimensione pre-discorsiva). Tuttavia questa produzione di equivalenze figurative avviene a mezzo di quello che Fontanille chiama “adattamento ipoiconico” e, solo in virtù di questo, le si può ascrivere la fondazione di un minimum attanziale. L’adattamento ipoiconico è da intendersi come

ricoprimento” della sensazione di contatto da parte del movimento corporale. Si tratta di una sola e unica esperienza della stessa struttura attanziale, quella del dialogo tra il soggetto e la cosa. (p. 212)

Ben si vede come questo adattamento non soltanto schiacci la sintassi attanziale su quella figurativa, fossilizzando tutto il dinamismo strutturale della prima, ma – in definitiva – faccia aderire l’intero dominio semiotico all’essere, tant’è che si parla di dialogo tra soggetto e cosa e non tra soggetto e oggetto. Molti aspetti poco chiari si riallineano così lungo un unico filo rosso, che ne mette a fuoco il senso: il rimando alle teorie biologiche, il senso di quell’orizzonte ontico che già in Semiotica delle Passioni campeggiava un po’ ovunque, nonché l’equivalenza tra senso ed essere che già allora Marsciani e Pezzini individuavano nella teoria di Fontanille (forse, velatamente, denunciandone l’azzardo).

Anche tra noi abbiamo avuto modo di porre il problema della fisicità, cercando di capire se e come intervenga a definire il testo nelle sue chiusure o se piuttosto non gli sopraggiunga lasciando che sia la prensione analitica a istituirlo e a tracciarne i limiti. Non serve citare Hjelmslev e la sua funzione segnica, che è sempre solo un rapporto tra forme e mai tra sostanze, le sostanze – comunque – ben distinguendosi dalla mera materia. Era già Saussure, su questo punto, a non ammettere fraintendimenti. La sua sfortunata definizione del significante come “immagine acustica” si è involontariamente prestata a una vulgata semiotica che, nella prassi, ha finito per reificare le varie manifestanti del senso. Saussure stesso presentiva questi rischi e, ci dice De Mauro, “andava in traccia di termini per liberarsi dagli equivoci, a suo avviso difficilmente evitabili, di signe, destinato sempre a slittare dalla nozione di entità complessa, bifacciale, a quella di forma esterna della parola.” Prima di approdare a segno, significante e significato, Saussure aveva avanzato la distinzione tra sema (entità bifacciale di pertinenza linguistica) e soma (spoglia esterna del seme). Altro termine per indicare la fisicità del supporto, e dunque per tradurre soma, fu provvisoriamente kénoma – che in greco significa “vuoto”. Era, come spiega de Mauro, “il guscio sonoro svuotato di significazione”, un “vuotema” che non doveva interessare le preoccupazioni dell’analista. Così Saussure negli scritti inediti:

Si commette questo errore di credere che vi sia 1. una parola come per esempio voir esistente in sé, 2. una significazione, che è la cosa associata a questa parola.

Ora, in sé voir non è niente, vale a dire che è l’associazione stessa che fa la parola, e che fuori di questa non c’è niente.

La miglior prova è che [vwar] in un’altra lingua avrebbe altro senso: di conseguenza non è niente in sé: e di conseguenza è una parola solo nella misura in cui evoca un senso. Ma, visto questo, è ben chiaro che voi non avete più il diritto di dividere, e di ammettere da un alto la parola, dall’altro la sua significazione. È un tutt’uno. Voi potete soltanto constatare il kénoma e il sema associativo. (p.105)

Insomma, la natura binaria del segno non articola due differenti domini esistentivi ma solo due sfere funzionali:

Il dualismo di cui partecipa il linguaggio non sta nel dualismo del suono e dell’idea, del fenomeno vocale e del fenomeno mentale, del fenomeno vocale e del fenomeno mentale. Questo qui è il modo facile e pernicioso di concepirlo. (p.11)

Così fosse, il legame dei due elementi avrebbe ben ragione di definirsi arbitrario, poiché due diversi domini esistentivi non possono essere correlati che di diritto, non avendo in se stessi nulla che ne indichi un comune destino. Il dominio esistentivo è però per Saussure uno soltanto e coincide con la dimensione dei fatti psichici. In esso la dualità non è più arbitraria ma necessaria, esattamente come per una stessa medaglia di cui non sia possibile ammettere una faccia senza ammettere anche l’altra. Chiarisce Saussure:

Vi è un dominio interiore in cui esiste tanto il segno (significante) quanto la significazione (significato), l’uno indissolubilmente legato all’altra. (p.11)

Una successione di suoni della voce (dominio esteriore) forse è un’entità rientrante nel dominio dell’acustica o della fisiologia. Ma a nessun titolo è, in questo stato, un’entità linguistica. (p.10)

Ora, secondo noi in Fontanille si ritrova tanto la deriva del soggetto trascendentale quanto lo schiacciamento del dominio semiotico sull’essere. Fra le due cose, dopotutto, potrebbe esserci un qualche legame, anche se non in forma di filiazioni dirette o consequenzialità immediate. L’attante rinuncia a quella vocazione genuinamente sintattica che gli derivava dal classico livello semionarrativo e finisce per irrigidire il proprio potenziale strutturale in una figura del corpo. Alla casella vuota deleuziana, che grosso modo Greimas riprendeva, si sostituisce una casella piena, programmaticamente piena, che – a un tempo – pretende di fondare il dominio semiotico e si presta a un facile antropomorfismo. Contro ogni provvida cautela strutturalista, l’entità semiotica depone la propria natura relazionale e comincia a definirsi per conto proprio, quasi allo specchio, come ciò che non può non essere, allo stesso modo in cui una certa coscienza si definisce a partire dalla sua presenza a sé. Più in generale, tutte le derive fisiciste rischiano di ipostatizzare una sostanza all’interno della manifestazione del senso: si produce un pensiero dell’essere che assegna il primato non più ai rapporti bensì alle loro singolarità o, peggio ancora, agli individui in cui esse si incarnano. E tutto ciò, di nuovo, contro il dettato saussuriano (in più punti):

La negatività dei termini del linguaggio può essere considerata prima di farsi una idea del luogo del linguaggio; per questa negatività si può ammettere provvisoriamente che il linguaggio esista fuori di noi e dello spirito, perché si insiste soltanto sul fatto che i differenti termini del linguaggio, invece di essere termini differenti come le specie chimiche ecc., sono soltanto delle differenze determinate tra termini che sarebbero vuoti e indeterminati senza queste differenze. (p.70)

In un altro punto, Saussure ribadisce lo stesso concetto, cioè la natura relazionale, negativa e differenziale di ogni entità ascrivibile al linguaggio, pur ammettendo che nel suo uso comune si sospenda una simile consapevolezza in favore di un atteggiamento più positivo, per certi versi evocante forse qualcosa di simile all’illusione referenziale:

Mi sembra che lo si possa affermare e proporre all’attenzione: non ci si compenetrerà mai abbastanza dell’essenza puramente negativa, puramente differenziale, di ciascuno degli elementi del linguaggio ai quali noi accordiamo precipitosamente una esistenza: non ce n’è nessuno, in nessun ordine, che possegga questa esistenza presupposta – quantunque forse, lo ammetto, siamo chiamati a riconoscere che, senza questa finzione, lo spirito si rivelerebbe letteralmente incapace di controllare una simile somma di differenze in cui non c’è mai in nessun momento un punto di riferimento positivo e fermo. (p.70-71)

Si tratta cioè di pensare alla relazione non come a qualcosa che si instaura a valle fra elementi dati ma come a qualcosa che instaura gli elementi stessi. Non relazione-fra, ma relazione-che-fa-il-suo-fra.

Ora c’è questo di primordiale e di inerente alla natura del linguaggio che, da qualunque lato si cerca di attaccarlo – giustificabile o no – non ci si potrà mai scoprire degli individui, cioè degli esseri (o delle quantità) determinati in se stessi sui quali si operi poi una generalizzazione. Ma c’è DALL’INIZIO la generalizzazione, e non c’è niente fuori di essa… (p.14)

La questione è di tutto rilievo perché mette in luce un aspetto importante dell’episteme strutturalista. Una visione statica dello strutturalismo definisce un elemento di un sistema come ciò che gli altri elementi non sono all’interno di quel sistema. Si tratta di quella che definiremo una negatività pigra, perché in definitiva poggia ancora sul raffronto tra elementi dati, dei quali si cerca di mettere in luce una qualche differenza di ordine chimico, sostanziale. C’è poi una negatività che definiremo vitale, perché non consente un riconoscimento bensì attiva una produzione: la generalizzazione che dall’inizio abita il linguaggio produce le sue singolarità assegnando loro un’esistenza puramente relazionale. Il principio non è molto diverso dalla “differanza” che Derrida (1967) inscrive nel cuore dell’originario per far vedere che in un mondo di segni tutto è da sempre differito, poiché tutto – in definitiva – non è che differimento, costituzione negativa in corso d’opera, mai data una volta per tutte, sempre cangiante, al punto che l’esperienza dell’errore non è da intendersi come un accidente del linguaggio bensì come la sua massima celebrazione. Quel che più conta è che una negatività vitale di questo tipo rende non più pertinente il problema trascendentale perché impedisce di pensare alla nozione stessa di origine. Cosa di cui, a suo modo, lo stesso Saussure era già consapevole, e in maniera tale da anticipare il rinvio alla logica stoica dell’evento, così come esso verrà riproposto più di mezzo secolo dopo dal Deleuze di Logica del Senso. Scrive infatti Saussure:

Niente prova meglio la nullità di ogni ricerca sull’origine della lingua. Ma su questa questione non ci si può limitare a constatazioni negative.

Ciò che prova l’assenza di una questione filosofica dell’origine della lingua, NON È UN FATTO NEGATIVO, è il fatto positivo che dal primo momento un segno non vale che se è associato a un valore, dunque a un insieme di differenze di forme in relazione con differenze di significazione.

Considerare la lingua e chiedersi in qual momento preciso la tal cosa è “cominciata” è intelligente quanto guardare il ruscello che viene dalla montagna e credere che risalendolo si troverà il punto preciso dove ha la sua sorgente. Cose senza numero stabiliscono che in ogni momento il RUSCELLO esiste mentre si dice che nasce, e che reciprocamente non fa che nascere mentre si constata che esiste. (p.106)

Porre il pensiero negativo sotto l’ombra di una scelta sottile, che lo faccia propendere o per un atteggiamento pigro, volto al riconoscimento inerte di individui, o per un atteggiamento vitale, che indichi una produzione incessante di relazioni, ci serve per rendere conto della posizione di un autore, che sulla questione del soggetto ci pare più ambiguo di quanto forse non si credi. L’autore è Benveniste. Nei Problemi di linguistica generale, mentre dichiara che la coscienza di sé è un fenomeno che non può trovare manifestazone al di fuori dei processi linguistici e che, in ogni caso, essa si da solo per contrasto (io-tu), Benveniste sostiene che se il linguaggio conosce una qualche attualizzazione, esso la deve in primo luogo al soggetto, che nella comunicazione fa la sua comparsa, operando i passaggi dalle alternanze alle coesistenze e, in definitiva, convertendo le virtualità del sistema nei diversi processi linguistici. In una parola, enunciando. Il momento relazionale in cui si costituirebbero le entità linguistiche, inoltre, risente – più che in Saussure – della tentazione di ridurre ogni rapporto a coppie di deittici, attraverso la categoria di persona. Così la relazione finisce per risolversi in un principio di “polarità della persona”, rispetto al quale fenomeni ibridi come il discorso libero indiretto possono essere spiegati solo come approssimazioni per difetto della medesima struttura polare, facendo cioè loro perdere l’autonomia e la ricchezza di cui sono portatori.

Il linguaggio – scrive Benveniste – è organizzato in modo da permettere a ogni parlante di appropriarsi dell’intera lingua designandosi come io. I pronomi personali sono il primo punto d’appoggio per questa chiarificazione dela soggettività nel linguaggio. Da questi pronomi dipendono a loro volta altre classi di pronomi, che partecipano dello stesso status. Si tratta degli indicatori della deissi, dimostrativi, avverbi, aggettivi, che organizzano le relazioni spaziali, e temporali attorno al “soggetto” preso come punto di riferimento: “questo, qui, ora”, e i loro numerosi correlati “quello, ieri, l’anno scorso, domani”, ecc. hanno in comune la proprietà di definirsi solo in rapporto alla situazione di discorso dove sono prodotti, cioè sotto la dipendenza dell’io che vi si enuncia. (Problemi di linguistica generale, p. 314-315)

Lasciando aperta la discussione intorno a un autore che forse merita una riflessione aggiuntiva, e su cui sospendiamo volentieri il giudizio, torniamo a chiarire che il nostro sospetto circa la presenza di un’istanza soggettuale e trascendentale all’interno del paradigma strutturale e generativo non cerca di rinvenire un fantomatico produttore del linguaggio, né – di conseguenza – di considerare in termini produttivi il percorso generativo. Cosa ben diversa, il soggetto che in quella teoria secondo noi fa problema è un soggetto che funziona, per dirla con Benveniste, “preso come punto di riferimento”, quasi che ogni garanzia di intelligibilità del discorso e, infine, del senso sia subordinata alla sua localizzazione o, quantomeno, alla sua presentificazione. Anche quando non si da, sembra necessario poterlo porre, per far sonnecchiare, al di sotto del linguaggio, una garanzia di certezza della conoscenza. Di nuovo, proprio per il fatto che non si danno che discorsi, o – variabilmente – che tutto è segno, dobbiamo accettare l’esperienza del rinvio non come qualcosa che di tanto in tanto accade fra le singolarità e ne mette in luce un certo modo di stare assieme, bensì come all’unico modo che tali singolarità hanno per emergere, per nascere, per manifestarsi e dotarsi di un senso che, costitutivamente, viene loro meno. Con Derrida, accettiamo quindi l’idea che l’esperienza dell’errore non sia affatto un accidente del linguaggio bensì la sua massima celebrazione e che, di fronte ad esso, non valga tanto la pena ovviargli in nome di una situazione di laboratorio stabilizzata (come fa Greimas cercando il senso del senso), ma – come dice Carlo Sini e come, ad esempio nel teatro, ha fatto Carmelo Bene, provare a dire il nulla che siamo. E che ci rende così vivi.

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